Anno Accademico 2022-2023

Vol. 67, n° 4, Ottobre - Dicembre 2023

Conferenza: Terapia molecolare del cancro

13 giugno 2023

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Terapia molecolare del cancro

M. Lopez


“Così come l’attuale conoscenza e pratica della Medicina si basano sulla conoscenza sofisticata dell’anatomia, della fisiologia e della biochimica umane, allo stesso modo occuparsi delle malattie in futuro richiederà una comprensione dettagliata dell’anatomia, fisiologia e biochimica del genoma umano”.

                                                                     Paul Berg, biochimico e Premio Nobel per la Chimica


Per terapia molecolare del cancro, generalmente s’intende un tipo di trattamento che usa farmaci diretti contro bersagli molecolari specifici necessari alla cellula neoplastica per sopravvivere, proliferare e diffondersi. Può essere indicata anche con altri nomi, come terapia a bersaglio molecolare, terapia con farmaci a bersaglio molecolare, terapia personalizzata e terapia individualizzata.

Quando si parla di terapia dei tumori, oggi spesso si fa riferimento a essa, la cui nascita ufficiale può essere fatta risalire al 10 maggio 2001, giorno in cui la Food and Drug Administration (FDA) ha approvato l’imatinib (Glivec) nella leucemia mieloide cronica (LMC) come inibitore della proteina di fusione Bcr-Abl, prodotta dal gene di fusione bcr-abl situato sul cromosoma 22 (cromosoma Philadelphia), derivato dalla traslocazione t (9;22).

Tuttavia, sia la definizione che la data di nascita sono alquanto imprecise per una serie di motivi. Innanzi tutto, ogni farmaco - per espletare la propria azione - deve avere un bersaglio con cui interagire, generalmente costituito da molecole. Lo aveva già affermato Paul Ehrlich circa 150 anni fa con la famosa affermazione: corpora non agunt nisi fixata. L’ipotesi era che il farmaco agisse legandosi a costituenti cellulari, che aveva denominato recettori, dando a essi un significato diverso da quello attuale.

In Oncologia, lo sviluppo di agenti ormonali ha avuto l’obiettivo di interagire con molecole, quali appunto i recettori ormonali - quello per gli estrogeni è stato proposto da Jensen nel 1962 e identificato da Gorski nel 1966 - presenti nelle cellule tumorali e ritenute importanti per il mantenimento dell’attività proliferativa. L’ormonoterapia potrebbe quindi essere considerata, per la sua specificità, la prima forma di terapia molecolare.

Anche i farmaci citotossici tradizionali agiscono su determinati bersagli molecolari (per es. DNA, tubulina, topoisomerasi) che, in genere, sono correlati a processi vitali generali della cellula.

In alcuni casi, è stato individuato prima il farmaco: l’azione dell’aspirina è nota da molto tempo, ma solo recentemente è stato scoperto che il suo bersaglio è l’interazione specifica con gli enzimi denominati ciclossigenasi (COX-1 e COX-2) con conseguente inibizione della produzione di prostaglandine.

In altri casi, è avvenuto il contrario: per es. il recettore HER2 nel cancro della mammella è stato scoperto prima dell’anticorpo monoclonale anti-HER2, trastuzumab (Herceptin). Esso è stato approvato dall’FDA il 25 settembre 1988 e potrebbe essere considerato il primo farmaco a bersaglio molecolare.

A richiamare l’attenzione sulla terapia molecolare del cancro è stato però lo sviluppo dell’imatinib, che non sarebbe stato possibile senza la convergenza dei risultati di più linee di ricerca, che vanno dalla citogenetica all’oncogenesi virale e dalla biochimica alla biologia molecolare e cellulare.

Nel 1956, Peter Nowell - del Pathology Department of the University of Pennsylvania School of Medicine - interessato alle neoplasie del sistema emopoietico, cominciò a studiare le cellule leucemiche umane, applicando le tecniche allora più avanzate per visualizzare i cromosomi, come l’impiego di soluzioni ipotoniche e di colchicina. Non era però un esperto in citogenetica e accolse, quindi, con piacere David Hungerford, studente laureato del Fox Chase Cancer Center di Philadelphia, particolarmente interessato allo studio dei cromosomi. Nel 1960 Hungerford notò - in due pazienti affetti da LMC - che il cromosoma 22 era più piccolo del normale, poiché mancava una parte a una estremità1.

La scoperta di questo cromosoma - in seguito chiamato “cromosoma Philadelphia” (Ph) - ha rappresentato una pietra miliare in oncologia, poiché per la prima volta veniva identificato un marcatore citogenetico di una neoplasia umana, anche se in quel tempo le tecniche disponibili non consentivano di studiare le caratteristiche di singoli cromosomi e, quindi, di interpretare il significato di quella che appariva una mera delezione (Fig. 1).

 


Fig. 1. Preparazione cromosomica di cellule di LMC nella metafase della mitosi colorate col metodo Giemsa
. Il cromosoma Philadelphia (il piccolo cromosoma 22 indicato dalla freccia a destra) è il risultato della traslocazione reciproca tra i cromosomi 9 e 22. La porzione del cromosoma 22 traslocata sul cromosoma 9 è indicata dalla freccia a sinistra.

 

Solo dopo 13 anni, nel 1973 - con lo sviluppo della tecnica del bandeggio - la genetista Janet Rowley della University of Chicago notò che nei pazienti con LMC, oltre a essere presente materiale genetico in difetto a carico del piccolo cromosoma 22, si riscontrava materiale in eccesso sul più grande cromosoma 9. Mettendo vicini i due cromosomi, si poteva constatare che il materiale perduto dal cromosoma 22 si trovava sul cromosoma 9 e che una parte perduta del cromosoma 9 si trovava sul cromosoma 22. Pertanto, il cromosoma Ph era il risultato non di una delezione, ma di una traslocazione reciproca tra i bracci lunghi dei due cromosomi, indicata come t (9;22).

L’interpretazione del significato clinico della traslocazione t (9;22) fu possibile solo diversi anni dopo grazie alle informazioni provenienti da un’altra linea di ricerca, correlata alla oncogenesi virale. Nel 1970, Herbert Abelson e Louise Rabstein avevano isolato un virus a RNA che determinava l’insorgenza di un linfoma nel topo2. Similmente al virus del sarcoma di Rous (RSV), questo virus - denominato Abelson murine leukemia virus (A-MuLV) - aveva incorporato nel proprio genoma un gene della cellula parassitata, chiamato c-abl, andato successivamente incontro a una mutazione, il cui risultato era la produzione dell’oncoproteina v-Abl. Il clonaggio e il sequenziamento del gene virale mutato (v-abl) avevano consentito di prevedere la sequenza degli aminoacidi della proteina Abl, dimostratasi molto simile a quella della proteina Src, prodotta dal virus del sarcoma di Rous. Era una proteina oncogena con attività tirosinchinasica, capace di trasformare sperimentalmente fibroblasti e cellule linfatiche.

Quando, negli anni 1980, furono identificati i due geni contigui al punto di rottura dei cromosomi 9 e 22, si scoprì che si trattava del gene abl (di norma riscontrabile sul cromosoma 9) e del gene bcr (situato sul cromosoma 22) così chiamato poiché nel 1984 fu dimostrato che l’esatta sede del punto di rottura (genomic breakpoint) si trovava in una regione genomica relativamente piccola detta breakpoint cluster region (bcr). La conseguenza dello scambio di materiale genetico tra i due cromosomi era la formazione di due geni di fusione (chimerici): bcr-abl sul cromosoma 22 (cromosoma Philadelphia) e abl-bcr sul cromosoma 9 (Fig. 2).

 


Fig. 2. Rappresentazione schematica della formazione del cromosoma Philadelphia. I geni ABL e BCR si trovano rispettivamente sui bracci lunghi dei cromosomi 9 e 22. Dalla traslocazione reciproca derivano due geni di fusione: ABL-BCR sul cromosoma 9 e BCR-ABL sul cromosoma 22 (cromosoma Philadelphia).

 

Nel 1990, fu dimostrato che questo gene produceva una proteina anomala con attività tirosinchinasica permanente (costitutiva), in grado di indurre nel topo una malattia che somiglia alla LMC, e ipotizzato che avesse un ruolo importante nella patogenesi di questa neoplasia.

Questo però non fornì alcuna informazione sul suo preciso meccanismo d’azione. Nella popolazione normale i geni bcr e abl sono espressi in tutte le cellule. La funzione di bcr non è ben conosciuta, mentre abl codifica una proteina implicata nella crescita e nella proliferazione cellulare, che ha la funzione primaria di fosforilare i residui tirosinici di altre proteine nel processo di trasduzione dei segnali all’interno della cellula. La proteina di fusione Bcr-Abl possedeva un dominio tisosinchinasico capace di attivare la leucemogenesi nel topo, essenzialmente attraverso l’attivazione costitutiva della proteina Ras, col risultato di stimolare la proliferazione dei progenitori cellulari delle cellule mieloidi3.

Pertanto, ci sono voluti 30 anni per chiarire la funzione del cromosoma Ph, pervenendo alla conclusione che il punto cruciale risiedeva nell’attività tirosinchinasica costitutiva.

Il problema, pertanto, verteva fondamentalmente sulla possibilità di realizzare un’inibizione specifica di tali enzimi. Erano in molti a essere scettici. Nel genoma umano esistono almeno 518 geni che codificano proteinchinasi, di cui 90 codificano tirosinchinasi (TK). Tutte le proteinchinasi usano ATP (adenosintrifosfato) come donatore di gruppi fosfato per fosforilare (attivare) le proteine bersaglio e il sito di legame dell’enzima per l’ATP (c. d. tasca catalitica) risulta altamente conservato nel corso dell’evoluzione, nel senso che è strutturalmente molto simile in tutti questi enzimi. Pertanto, probabilmente questo sito non avrebbe potuto rappresentare un buon bersaglio per la scoperta di nuovi farmaci, a causa dell’impossibilità di generare inibitori capaci di legarsi specificamente a esso in chinasi coinvolte nella genesi dei tumori, risparmiando le altre. La contemporanea inibizione di numerose tirosinchinasi avrebbe comportato gravi effetti collaterali, incompatibili con la vita, considerate le loro molteplici e importanti funzioni. Inoltre, soltanto pochi ricercatori s’interessavano di chinasi e, in genere, si pensava che i farmaci potessero risultare attivi se rivolti verso un bersaglio extracellulare facilmente raggiungibile. Sarebbe invece stato pressoché impossibile raggiungere le chinasi per la loro localizzazione intracellulare, essendo molto difficile attraversare la membrana cellulare.

C’erano stati tentativi iniziali di sviluppare inibitori sintetici delle TK (tirfostine), ma erano stati abbandonati. Per fortuna, esistono persone che si propongono di sfidare l’impossibile, perché memori del fatto che tutto è impossibile finché non viene fatto.

Le cose cambiarono per iniziativa di Alex Matter. A Basilea, c’era la sede centrale della Ciba-Geigy che, nel 1983, decise di istituire una nuova unità per la ricerca sul cancro, chiamando Alex Matter a dirigerla. Per Matter questa era una grande opportunità, poiché poteva finalmente dedicarsi allo studio di ciò che più lo appassionava: le chinasi. Stabilito il programma generale di ricerca, nel 1985 Matter cominciò a organizzare un gruppo di lavoro per ricerche chimiche, biologiche e molecolari.

Gli studi iniziali non prevedevano la ricerca d’inibitori di Bcr-Abl. Si pensava, infatti, che questa proteina non fosse un bersaglio idoneo poiché - quand’anche si fosse trovato un farmaco in grado di inibirla - l’utilizzazione del prodotto sarebbe stata limitata a un numero di pazienti relativamente piccolo, considerata la bassa incidenza della LMC.

A suggerire di rivolgere l’attenzione proprio a questa malattia fu, nel 1988, Brian Druker, oncologo medico impegnato nello studio delle alterazioni molecolari implicate nel processo di trasformazione neoplastica. I motivi della scelta apparivano semplici e convincenti. Innanzi tutto, della LMC si conosceva la causa e, quindi, si aveva un bersaglio preciso da colpire: poteva pertanto ben essere la prima malattia in cui gli inibitori delle tirosinchinasi avrebbero dimostrato di essere efficaci. Inoltre, la dimostrazione dell’attività clinica di un inibitore delle tirosinchinasi avrebbe costituito un evento di straordinaria importanza a livello concettuale - una “prova di concetto” - perché significava validare l’approccio molecolare nella ricerca sul cancro.

I primi composti inibivano, oltre a Bcr-Abl, anche altre chinasi per cui sarebbero stati molto tossici nell’uomo. La scelta delle strutture chimiche da esaminare appariva piuttosto difficile, fino a che l’attenzione non fu attratta da una classe di agenti - chiamati fenilaminopirimidine - che erano simili strutturalmente ad alcuni composti disponibili commercialmente e che, pertanto, possedevano i requisiti per essere denominati farmaci. Furono sintetizzate numerose sostanze con attività sempre più selettiva, tra cui all’inizio del 1993 fu selezionato un agente che riduceva significativamente la fosforilazione della proteina Bcr-Abl (STI 571, Signal Transduction Inhibitor 571) e nell’agosto dello stesso anno si giunse alla conclusione che esso aveva tutti i requisiti sperimentali per essere sviluppato ulteriormente4.

I test preclinici furono completati da Druker nel dicembre 1993 e si rivelarono di grande interesse. STI 571 era in grado di esercitare un’azione molto selettiva, uccidendo le cellule leucemiche che esprimevano Bcr-Abl e risparmiando quelle normali. Inoltre, in test di formazione di colonie con sangue periferico o midollare di pazienti con LMC, era stata ottenuta una riduzione del 92-98% della formazione di colonie bcr-abl, senza inibizione della formazione di colonie normali. Per quanto straordinari fossero, non furono ritenuti sufficientemente interessanti, per cui Druker riuscì a pubblicare i risultati dei suoi studi solo nel 19665, anno in cui avvenne anche la fusione della Sandoz e della Ciba-Geigy (denominata Novartis).

Passarono altri anni per il completamento degli studi preclinici nell’animale da esperimento. Il primo caso negli studi di fase I in pazienti con LMC refrattari all’interferone a (IFNa) fu arruolato il 22 giugno 1998. Nel mese di aprile 1999 furono noti i risultati relativi ai primi 31 pazienti trattati: tutti avevano avuto una risposta ematologica completa (normalizzazione del numero di globuli bianchi) e 1/3 di essi addirittura una risposta citogenetica completa (scomparsa del cromosoma Ph)!

Era un evento senza precedenti in Oncologia, straordinariamente importante anche perché la notevole efficacia era stata ottenuta al costo di una quasi trascurabile tossicità.

Avuta la certezza che il nuovo farmaco sarebbe stato un successo, il problema più immediato fu programmare e organizzare la produzione di un grande quantitativo del prodotto, in previsione di un’enorme richiesta da parte dei pazienti di essere trattati con STI 571. Durante gli studi di fase I, in genere viene prodotto il quantitativo di farmaco necessario per una trentina di pazienti, ma in questo caso - considerata l’attività del composto - si poteva ipotizzare che esso sarebbe stato richiesto da almeno 20.000 persone. Era quindi necessario cominciare a produrne tonnellate senza aspettare, come in genere avviene, l’approvazione dell’FDA per dare il via all’operazione.

La produzione del farmaco fu spostata da Basilea a Ringaskiddy, nell’Irlanda del Sud, una sede precedentemente usata solo per produrre farmaci già approvati. Alla Novartis fu messo a punto un programma per produrre il farmaco nelle seguenti quantità: entro settembre 1999: 50 kg necessari per gli studi di fase I e II; gennaio 2000: 500 kg; maggio 2000: 600 kg; agosto 2000: 1400 kg (di fatto poi prodotti 1536 kg); 2001: 23 tonnellate. Si trattava di milioni di capsule, per le quali si doveva lavorare ininterrottamente giorno e notte6.

Nel dicembre 1999 i risultati ottenuti nello studio di fase I in un maggior numero di pazienti - quasi tutti in risposta ematologica completa - furono per la prima volta presentati da Druker al congresso dell’American Society of Hematology (ASH) a New Orleans, riscuotendo finalmente grande successo anche nei media. La Novartis, prima dell’ASH Conference riceveva 15 telefonate al mese riguardanti STI 571. Dopo, le telefonate furono 2000 al giorno per un mese e in seguito 600 al giorno. Nel corso dei successivi due anni, il call center della Novartis dovette aumentare il numero degli impiegati da 3 ad 80!

Gli studi di fase I iniziarono nel 1999. Nei pazienti con malattia in fase cronica, resistenti a IFNα, le risposte complete ematologiche furono del 95% e quelle citogenetiche maggiori (riduzione a < 35 della percentuale di metafasi Ph-1 positive) del 60%. Dopo un follow-up di 29 mesi, solo il 13% dei pazienti era ricaduto. Nei pazienti in fase accelerata o in crisi blastica, si era scettici sulla possibilità di un buon risultato, essendo presenti alterazioni genomiche multiple. Invece, pure in questi casi le percentuali di risposta erano state elevate, anche se le ricadute risultarono più frequenti e la maggior parte di quelli in crisi blastica era in ricaduta già entro il primo anno.

Considerata la grande richiesta di malati desiderosi di entrare a far parte degli studi, nel giugno 2000 la Novartis lanciò un programma di accesso allargato (Expanded Access Program, EAP) basato su un meccanismo flessibile che consentiva di arruolare un numero maggiore di pazienti rispetto a quelli generalmente necessari negli studi di fase II. Complessivamente, in questo programma ne sono entrati circa 7000, estendendo l’arruolamento da 6 a 32 Nazioni.

Dopo il completamento di tre studi di fase II fu attivato uno studio di fase III in pazienti con diagnosi iniziale di LMC, con l’obiettivo di mettere a confronto imatinib con la terapia standard costituita da IFNα e citarabina (Ara-C). Allo studio - iniziato nel giugno 2000 e chiuso nel gennaio 2001 - hanno partecipato 117 centri di 16 Nazioni, arruolando 1106 pazienti in soli 7 mesi. La superiorità d’imatinib si dimostrò schiacciante7. I risultati a distanza dello studio hanno successivamente messo in evidenza una risposta citogenetica completa nell’87% dei casi, con una sopravvivenza libera da malattia a 5 anni dell’83%.

Nonostante la straordinarietà di questi risultati, era stato osservato che alcuni malati non rispondevano al farmaco fin dall’inizio (resistenza primaria), mentre altri divenivano resistenti nel corso del tempo (resistenza secondaria).

In assenza di informazioni di natura strutturale, risultava difficile spiegare l’eccezionale selettività d’azione dell’imatinib, né si potevano comprendere le alterazioni molecolari che stavano alla base della resistenza al farmaco. Un notevole contributo al riguardo fu apportato da studi di cristallografia. Si poté constatare, infatti, che gli inibitori selettivi delle tirosinchinasi prendono contatto con specifici aminoacidi in corrispondenza del sito di legame (tasca chinasica) per l’ATP, bloccando in tal modo l’attività della chinasi (Fig. 3).

Alcune mutazioni inducono resistenza all’imatinib per un impedimento sterico: il nuovo aminoacido, che ha sostituito quello normale, apporta una massa aggiuntiva e, occupando più spazio nella tasca chinasica, impedisce all’imatinib di stabilire un legame con essa (Fig. 4).

 


Fig. 3. Meccanismo di azione dell’imatinib. A. La proteina di fusione BCR-ABL, attivata costitutivamente, funziona trasferendo un gruppo fosfato dall’adenosintrifosfato (ATP) a residui tirosinici di vari substrati, determinando un eccesso di proliferazione delle cellule mieloidi caratteristiche della leucemia mieloide cronica. B. Imatinib è in grado di occupare competitivamente la tasca, normalmente occupata dall'ATP nel dominio con attività tirosinchinasica di BCR-ABL, inibendo così la fosforilazione dei substrati.

ADP, adenosindifosfato. (Da: Savage DG, Antman KH. Imatinib mesylate – a new oral targeted therapy. N Engl J Med 2002; 346: 683-93.)

 

 


Fig. 4. Struttura di Abl legata a imatinib, nilotinib e dasatinib. a. Rappresentazione della superficie della struttura cristallina di Abl legata a imatinib, nilotinib e dasatinib. b. Confronto tra i diversi modi di legame di tre inibitori di Abl. Imatinib e nilotinib bloccano la chinasi nella conformazione inattiva, mentre dasatinib blocca Abl legandosi a essa nella conformazione attiva. Si può osservare che, nella conformazione inattiva (sinistra e centro), l’ansa P (l’ansa che lega il fosfato dell’ATP, rossa) è piegata sull’inibitore e l’ansa di attivazione (magenta) è ‘chiusa’. Invece, nella conformazione attiva (destra), l’ansa P è in posizione estesa e quella di attivazione è ‘aperta’. Quella verde è l’elica C. In molte chinasi, essa può ruotare e cambiare posizione, modificando in tal modo l’orientamento di residui catalitici chiave. (Da: Weisberg E, Manley PW, Cowan-Jacob SW, et al. Second generation inhibitors of Bcr-Abl for the treatment of imatinib-resistant chronic myeloid leukaemia. Nat Rev Cancer 2007; 7: 345-56.)

 

Nella maggior parte dei casi, però, il meccanismo della resistenza è un altro. Similmente a tutte le altre chinasi, a livello molecolare la tirosinchinasi Bcr-Abl funziona modificando la sua conformazione spaziale a seconda che sia accesa (‘on’) o spenta (‘off’) in rapporto alla posizione dell’ansa di attivazione che ha un ruolo di rilievo nella fosforilazione del substrato.

L’imatinib si lega a Bcr-Abl solo quando questa si trova in conformazione ‘off’ con l’ansa di attivazione chiusa. La stabilizzazione dell’enzima in una conformazione inattiva si traduce in un’efficace e selettiva terapia della malattia.

La comparsa di mutazioni puntiformi che conferiscono resistenza, altera la flessibilità di Bcr-Abl che non è più in grado di assumere una conformazione ‘off‘ completa, necessaria per un legame ottimale dell’imatinib8. Pertanto, un approccio per superare questo tipo di resistenza era trovare farmaci capaci di legarsi a Bcr-Abl nella conformazione ‘on‘, ossia con l’ansa di attivazione in conformazione aperta. Si poteva però ipotizzare di ottenere lo stesso risultato anche con agenti che continuavano a legarsi alla conformazione inattiva di Bcr-Abl, ma possedevano siti d’interazione diversi da quelli dell’imatinib (Fig. 4).

Quest’ultimo approccio consentì di disegnare razionalmente una molecola - nilotinib (Tasigna) - più selettiva e potente dell’imatinib e attiva anche nei casi con resistenza a quest’ultimo. D’altra parte, un’altra piccola molecola - dasatinib(Sprycel) - che si lega alla conformazione attiva di Bcr-Abl, si dimostrò notevolmente attiva in pazienti con LMC pretrattati con imatinib.

Il successo dell’imatinib nella LMC, ha aperto una nuova era nella terapia del cancro, dando l’avvio alla ricerca in diverse neoplasie di altri bersagli molecolari da inibire con farmaci specifici. Come la maggior parte degli inibitori tirosinchinasici, imatinib blocca l’attività di varie altre chinasi e – nel corso del tempo – è stato approvato in diverse condizioni morbose.

Nei GIST ha rappresentato una terapia che ha completamente cambiato - come nel caso della LMC - la storia naturale di una neoplasia prima costantemente letale in pochi mesi, quando in fase avanzata9.

Nel dermatofibrosarcoma protuberans (DFSP) – neoplasia con spiccata tendenza a recidivare dopo asportazione chirurgica – risposte oggettive possono osservarsi fin nel 90% dei casi10.

Il cromosoma Ph è anche presente in una piccola percentuale (2-5%) di bambini con leucemia linfoblastica acuta. In questi pazienti è attiva la proteina Bcr-Abl e si ottiene una risposta all’imatinib in circa il 30% dei casi.

La mastocitosi sistemica - prima trattata con antistaminici, cortisonici o chemioterapici - può trarre beneficio dall’imatinib.

La sindrome ipereosinofila (hypereosinophilic syndrome, HES) è caratterizzata da marcato aumento degli eosinofili nel sangue, seguito da disfunzioni dei diversi organi da essi infiltrati. Nel 2001 - poco dopo l’approvazione dell’imatinib nella LMC - fu pubblicato il primo caso di risposta rapida e completa in un paziente con HES trattato con tale agente a bersaglio molecolare11. In quel tempo la patogenesi molecolare dell’HES era del tutto sconosciuta, per cui il trattamento non fu iniziato su base razionale, ma sull’ipotesi che avrebbe potuto funzionare in considerazione del fatto che la HES somiglia a malattie mieloproliferative come la LMC. L’efficacia terapeutica dell’imatinib indusse alcuni ricercatori a ritenere che poteva essere spiegata dall’inibizione di una tirosinchinasi e a ricercare, pertanto, mutazioni a carico delle tre chinasi inibite dall’imatinib: ABL, KIT e PDGFR. Presto si scoprì che il gene PDGFRα presentava una delezione, che causava la sua fusione con un altro gene (FIP1L1), dando origine a una proteina di fusione (FIP1L1-PDGFRα) attiva costitutivamente, analoga a Bcr-Abl: un meccanismo non dissimile da quello in causa nel DFSP. Pertanto, la patogenesi molecolare dell’HES era stata chiarita partendo dal meccanismo d’azione del farmaco rivelatosi efficace nel trattarla.

D’altra parte si poté constatare che i recettori KIT e PDGFR erano anche espressi in numerose altre neoplasie nelle quali potevano essere attivati con meccanismi diversi, ma si trattava di attivazioni prive di significato patogenetico. Pertanto, l’inibizione dell’attività tirosinchinasica del recettore non appariva di utilità clinica. Si comprese in tal modo che, se era importante assicurarsi che il bersaglio fosse presente e attivo, lo era altrettanto valutare il ruolo che esso aveva nella genesi della malattia.

Ciò portò alla suddivisione delle mutazioni in due grandi gruppi. Mutazione driver (pilota) è la mutazione di un gene che conferisce alla cellula un vantaggio proliferativo selettivo, favorendo lo sviluppo e la progressione di un cancro. Mutazione passenger (passeggera) è quella che invece non fornisce un vantaggio proliferativo.

Nel caso della LMC l’individuazione del bersaglio era stata relativamente semplice poiché esiste un marcatore - il cromosoma Ph, che rende facile l’identificazione dei pazienti - e la proteina Bcr-Abl ha significato patogenetico. Lo stesso può dirsi per i GIST in cui l’attivazione costitutiva del recettore KIT sta alla base della genesi della neoplasia. Il caso, quindi, ha voluto che i primi due tumori trattati con successo con imatinib avessero alterazioni molecolari relativamente semplici, facilmente riconoscibili e patogeneticamente importanti, in quasi tutti i pazienti affetti da queste due malattie.

Pian piano, nel corso di un decennio, i principi derivati dalle prime osservazioni con l’uso dell’imatinib nella LMC - e in seguito anche nei GIST - sono stati diffusamente applicati in tutti i tumori, col risultato che molte neoplasie oggi traggono beneficio da una terapia con inibitori delle chinasi. L’iter evolutivo è quasi sempre quello inizialmente tracciato dall’imatinib. I pazienti che con maggiore probabilità traggono giovamento dai farmaci a bersaglio molecolare sono quelli i cui tumori presentano singole alterazioni del gene o della via di trasduzione dei segnali con cui interagisce il farmaco.

Questo tipo di approccio è risultato di notevole utilità per molti pazienti, al punto che oggi quasi tutti i farmaci in via di sviluppo sono agenti a bersaglio molecolare. Tuttavia, la terapia molecolare del cancro presenta una serie di limiti.

Innanzi tutto, il sequenziamento di nuova generazione ha evidenziato che solo pochi tumori (<10%) hanno un profilo genetico che può essere usato ai fini terapeutici. Anche se le risposte terapeutiche possono essere eclatanti e di lunga durata e la sopravvivenza dei pazienti notevolmente prolungata, questo tipo di approccio non riesce a guarire definitivamente la malattia. Se il trattamento è sospeso, la neoplasia riprende la sua evoluzione. I farmaci a bersaglio molecolare, pertanto, esercitano un’azione di tipo citostatico, tendendo - nella migliore delle ipotesi - a cronicizzare la malattia.

Così come esiste un’eterogeneità istologica, esiste un’eterogeneità genetica che conferisce alla neoplasia caratteristiche di rilievo non soltanto da un punto di vista evolutivo, ma anche terapeutico.

Col tempo, la selezione darwiniana fa in modo che nuove mutazioni prendano il sopravvento, causando l’insorgenza di farmacoresistenza e la necessità di ricorrere ad altri agenti (o combinazioni di farmaci) al fine di superarla. Inoltre, la frammentazione di tumori istologicamente simili in sottogruppi molecolari diversi, trasforma la malattia in una serie di disordini rari per ognuno dei quali è necessario un farmaco specifico. Il risultato finale rappresenta la somma di numerosi benefici parziali dovuti al trattamento di singole entità molecolari con perdita del concetto unitario di malattia.

La teoria molecolare del cancro e le numerose ricerche cliniche e sperimentali da essa derivate hanno apportato indubbi successi terapeutici, ma hanno anche dimostrato che l’approccio alla terapia dei tumori permane notevolmente complesso. Saranno gli studi futuri a indicare la strategia più corretta per dare una soluzione definitiva al problema.


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