Prof. Francesco Belli

Docente di Immunologia, Corso di Laurea in Biotecnologie, “Sapienza” Università di Roma

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2022-2023

Vol. 67, n° 3, Luglio - Settembre 2023

Settimana per la Cultura

04 aprile 2023

Copertina Atti Terzo Trimestre 2023 per sito.jpg

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La ricostruzione delle epidemie del passato mediante le più avanzate biotecnologie

F. Belli


La narrazione delle epidemie del passato, tra mito, storia e letteratura.

Alle origini della letteratura occidentale, affollata di divinità, semidei ed eroi, protagonisti di miti ancor oggi permeanti la nostra cultura, i versi iniziali dell’Iliade di Omero (epica)1 e dell’Edipo tiranno di Sofocle (tragedia)2 descrivono il diffondersi di «pestilenze»: le cause (supposte), le manifestazioni (σημεῖα), le ricadute (fisiche e mentali, individuali e collettive). Nel primo caso, l’epidemia che colpisce gli Achei è conseguenza di un atto di ὕβρις, arroganza e offesa da parte del capo supremo, Agamennone, nei confronti di Crise, sacerdote di Apollo e, pertanto, verso il dio stesso, che si vendica con i suoi «dardi infallibili». In Sofocle, più che gli dei, peraltro quasi indifferenti, è la natura che reagisce alla contaminazione della terra, insanguinata dal parricida Edipo e alla passività dei Tebani con un’epidemia che colpisce uomini e animali. In entrambi i casi, la fine della «peste» richiederà «sacrifici» a chi è stato riconosciuto colpevole (verso gli dei, la natura, la collettività) con clamorosi «passi indietro» o rinunce3 (un esempio anche per i potenti e i politici di oggi?).

Naturalmente da queste narrazioni nulla si evince riguardo la natura biologica delle epidemie, genericamente nominate «pestilenze»: come tali, a secoli di distanza, le accettiamo, e le inquadriamo, soffermandoci sulla bellezza dei versi più che sulla materia trattata. Dobbiamo attendere il V secolo a.C. per avere la prima descrizione credibile e realistica di un’epidemia: la «peste di Atene» e la narrazione di Tucidide4, lucida, dettagliata, storiografica, quando ancora il concetto stesso di «epidemia» non era automaticamente connesso a eventi biologici e di salute pubblica. La lezione di Tucidide, ripresa 4 secoli dopo da Lucrezio5 (negli esametri del «de rerum natura» e nel modello filosofico epicureo), farà scuola e guida a lungo: Petrarca, Boccaccio, persino Manzoni («la falce che miete e pareggia»)6 e Camus leggeranno, attualizzeranno, copieranno la descrizione e l’impostazione storico-politica, sociale, persino «clinica» (in assenza di riscontri e osservazioni dei medici dell’epoca) tucididea, a secoli di distanza.          

Nel mondo greco, dapprima, e poi romano, tra l’età del mito e la nascente storiografia, dobbiamo sottolineare due aspetti importanti riguardo l’argomento trattato:

  1. «Epidemia, epidemico» sono stati termini impiegati per indicare qualcosa «che sta in mezzo al popolo», di qualunque tipo e natura e non necessariamente in senso negativo, vocaboli assai tardi accostati prevalentemente o esclusivamente a fenomeni biologici. Lo stesso Ippocrate, nei ponderosi trattati «Delle epidemie», peraltro di dubbia attribuzione, si occupa di tutt’altro, di patologie non infettive, di casi singoli e non collettivi7.
  2. Le descrizioni di Tucidide, Lucrezio e successivi epigoni si inseriscono in un panorama in cui i medici, tanto singolarmente, quanto come membri di scuole affermate, non si accostano, almeno letterariamente, alla materia. Durante la peste di Atene, Tucidide sottolinea come fossero coinvolti anch’essi, contagiati o periti, dal morbo; la presenza di Ippocrate, all’epoca trentenne, ad Atene, rimane controversa e non provata. Dovremo attendere il II secolo d.C., durante la «peste antonina», per vedere un medico di fama, Galeno, nel corso dell’epidemia, occuparsi dei malati e scriverne i resoconti8.

Un piccolo inciso, per completezza della trattazione, merita la prospettiva religiosa. Se nel mondo greco-romano, ma non solo, anche tra i cosiddetti «barbari o stranieri», tutti comunque accomunati da un marcato politeismo, un’epidemia con il relativo carico di sofferenze e marasma sociale, economico e giuridico era vista come una vendetta, una punizione inviata dagli dei a uomini tracotanti e colpevoli verso le stesse divinità o la natura, l’avvento delle religioni monoteiste non muta, per molti secoli, simili credenze. Nella Bibbia9 numerose sono le narrazioni di epidemie inviate in terra come castighi divini, nel Corano10 la prospettiva non è molto dissimile. I primi Autori Cristiani a scrivere di epidemie (San Cipriano, Procopio da Cesarea) presentano una visione parzialmente modificata: sono punizioni, prove che gli uomini devono sopportare con pazienza e fermezza, assumendo la fede quale unica terapia11; prospettiva che, in certi ambienti oltranzisti del cattolicesimo d’oltreoceano, abbiamo ritrovato ancor oggi durante la pandemia da COVID-19, amplificata da una violenta campagna contro la medicina “ufficiale”, i vaccini e le misure di contenimento adottate.

Tornando alle descrizioni del passato e di come possiamo utilizzare il “materiale” letterario pervenutoci, per comprendere le caratteristiche delle epidemie riportate in versi o in prosa, sono necessarie alcune ulteriori considerazioni. In un mondo di miti, dei corrucciati, uomini tracotanti, superstizioni secolari, la lezione storiografica di Tucidide si pone come una vera rivoluzione narrativa e una lezione per il futuro. Tucidide, «il massimo fra gli storici di Grecia, e di ogni tempo» (San Mazzarino)12, eliminando ogni connessione causale con il «divino» e «il non umano o naturale», offre della peste di Atene una rappresentazione lucida, realistica, dettagliata; considerato un «semiologo» della storia, della politica e delle società, è tale anche in campo medico, descrivendo segni e sintomi (σημεῖα) dei malati, come singoli sofferenti, come comunità devastata. Il limite, inevitabile, che noi moderni rileviamo nella narrazione Tucididea, e nelle cronache successive di epidemie del passato, è l’impossibilità ad andare oltre il generico concetto di «peste o pestilenza», di assegnare un nome biologico causale a eventi così lontani. Dalla peste di Atene a quelle africana e antonina, e così via, leggendo storie e cronache, anche puntuali, non possiamo discriminare tra vera peste, tifo, febbri emorragiche, vaiolo, e quant’altro! Dobbiamo arrivare alla «peste di Giustiniano» e persino alla «peste nera» medievale per una diagnosi di certezza, mediante prove più robuste (epigrafi, iscrizioni, rapporti di medici contemporanei) e cominciare a ricostruire in un’ottica moderna i quadri clinici del passato.

Nella Tab. 1 abbiamo riportato le caratteristiche delle principali «pesti» e pestilenze, nell’area mediterranea, storicamente documentate, prima della “peste nera” del 1300. I numerosi punti interrogativi nella colonna delle diagnosi presuntive, ribadiscono la difficoltà di comprendere su base scientifica e attuale l’esatta natura biologico-causale di eventi ormai remoti, da fonti letterarie perlopiù incomplete, poco aderenti alla realtà clinica, rimarcando lo jato tra concezioni medico-sanitarie di ieri e di oggi, situazione da cui scaturisce l’esigenza di impiegare nuovi strumenti di indagine.

 


Antropologia molecolare, paleogenetica, paleomicrobiologia

L’antropologia molecolare è una nuova disciplina che in questi ultimi anni ha avuto un enorme sviluppo grazie all’impiego di tecnologie innovative e, in genetica, di marcatori che permettono analisi sempre più approfondite del DNA antico (aDNA) e moderno13. Dall’incontro fra antropologia molecolare, archeologia e paleontologia nascono nuove opportunità di studio su antichi genomi umani, di animali e piante e ominidi estinti. In particolare, l’analisi di aDNA umano permette:

- la ricostruzione della storia naturale e dell’evoluzione della nostra specie;
- lo studio delle relazioni fra H.sapiens ed altre specie ominine estinte;
- la ricostruzione del quadro storico e geografico delle migrazioni umane e i rapporti con altri marcatori di evoluzione: ad es, le lingue;
- l’allestimento di orologi molecolari ed alberi filogenetici;
- il confronto fra dati molecolari e antropologici in tema di antiche o più recenti patologie, soprattutto malattie infettive ed epidemie e la loro ricostruzione storico-socio-sanitaria.

Per “ancient-DNA” (aDNA) intendiamo i residui di materiale genetico che si possono estrarre da numerosi campioni biologici del passato, d’età e stato di conservazione differente. Il caso più frequente è quello del DNA recuperabile da denti, ossa antiche e fossili, proveniente dagli osteociti che vanno incontro ad autolisi post-mortem, i cui acidi nucleici rimangono in parte isolati e protetti in nicchie e lacune nell’ambito della matrice interstiziale calcificata14. Almeno teoricamente, aDNA può essere estratto da un’ampia tipologia di campioni: ossa e denti; resti mummificati naturalmente o artificialmente; manufatti; coproliti; campioni inglobati in ambra; preparati istologici paraffinati; campioni secchi o disidratati, conservati in ambienti aridi o musei; campioni umidi (da torbiere) o congelati (da ghiacciai, tundre); suolo e terreni frequentati in passato da uomini e/o animali.

La ricerca di materiale genetico, tanto antico, quanto moderno, riguarda sia il DNA nucleare (nDNA) che il DNA mitocondriale (mtDNA), ognuno con caratteristiche specifiche (Tab. 2), problematiche legate alle diverse fasi del lavoro in laboratorio, campi di applicazione15.

 

Numerosi sono i fattori che condizionano la presenza o meno di aDNA in un campione e la sua degradazione, a cominciare da temperatura, umidità relativa, pH, quadro microbiologico dell’ambiente e del sito di conservazione. Habitat caldo-umidi, con molta acqua, ossigenati favoriscono la crescita di microrganismi i cui enzimi denaturano gli acidi nucleici; ambienti aridi con caldo secco (deserti), freddo e circolazione di aria gelata (steppe siberiane), scarsa ossigenazione e alta salinità offrono invece condizioni opposte e ottimali alla conservazione. Il termine tecnico che riassume le modificazioni chimiche cui va incontro il DNA, senza i fisiologici meccanismi riparativi di una cellula vivente, è “diagenesi"16. Le conseguenze sono quantitative e qualitative: fra le prime, la frammentazione della molecola, mentre le principali alterazioni strutturali consistono in: depurinazione, idrolisi dei legami fosfodiesterici, azione di radicali liberi, ossidazioni, deaminazione, dimerizzazione delle pirimidine, reazioni di alchilazione. Altro evento che aumenta le problematiche relative all'analisi di aDNA è la contaminazione del reperto, che riconosce diverse cause:

  1. contaminazione biologica, ad opera di microrganismi ambientali, batteri, miceti, protozoi, che sostituiscono il o i genomi antichi presenti nel reperto col proprio in percentuale variabile a seconda dell'età e della carica microbica accumulatasi col tempo;
  2. contaminazione da parte degli operatori, sia di un elemento di nuova individuazione, che già studiato e musealizzato. Oggi esistono linee-guida che riguardano reperti vecchi e nuovi in modo da formare barriere tra questi e le diverse figure di tecnici, archeologi, specialisti di varie discipline che vengono in contatto diretto con l'oggetto allo studio;
  3. contaminazione attraverso apparecchiature e reagenti di laboratorio: la prevenzione di possibili inquinamenti richiede la sterilità assoluta di macchinari, vetreria, soluzioni, reagenti; l'impiego di cappe sterili; l'adozione di barriere fra operatori da una parte, reperti, macchinari e reattivi dall'altra; la costruzione di laboratori specifici ove siano ben separati gli ambienti dedicati alla fase pre-amplificazione (prelievi, estrazione), dall'amplificazione stessa alle fasi post-amplificazione (clonaggio, sequenziamento).

È il tempo il fattore determinante che condiziona la presenza o meno, la parziale integrità o la frammentazione irreversibile, fino alla disgregazione, del materiale genetico, in un reperto antico; le condizioni di conservazione, i diversi elementi chimici, fisici e biologici sono senz'altro importanti, ma il periodo trascorso fra la fine di una vita e il recupero di quanto fisicamente rimasto rappresenta l'ostacolo principale alla possibilità di condurre indagini su aDNA: dobbiamo preliminarmente affidarci a prove indirette per stimare la reale possibilità di recuperare il materiale genetico. Il rapporto di racemizzazione dell'acido aspartico è un marker affidabile in quanto correla col principale meccanismo degradativo di aDNA: la depurinazione. Se il rapporto D/L Asp è ≤ 0.1, si può recuperare aDNA e procedere con l'estrazione e l'amplificazione; se il rapporto è > 0.1 le possibilità di trovare aDNA sono minime o nulle e dunque la procedura dovrebbe essere interrotta. La termogravimetria sfrutta la proprietà di un campione, come ad es. un osso, di perdere componenti differenziate se sottoposto all'azione del calore a diverse temperature: fra 200 e 600° sono “bruciate” le componenti organiche, tra cui gli acidi nucleici.

Nelle Fig. 1 e 2 abbiamo sintetizzato l’algoritmo procedurale per lo studio di aDNA e le diverse fasi della procedura, aggiornate secondo le più recenti linee-guida: le operazioni preliminari (vedi sopra), l’estrazione del DNA, la determinazione quantitativa del numero di molecole di DNA, l’amplificazione, gli steps post-amplificazione, che culminano nel sequenziamento, l’esame e la ricostruzione delle sequenze nucleotidiche17,18.

 

 

Mediante le conoscenze e le tecnologie illustrate, sta avendo un considerevole sviluppo una nuova disciplina, la paleomicrobiologia: “la branca della microbiologia che si occupa della ricerca, dell’identificazione e della caratterizzazione dei microrganismi nei reperti archeologici: in questi campioni il DNA microbico può sopravvivere per quasi 20.000 anni e le più recenti tecniche hanno consentito di effettuare diagnosi di remote infezioni causate da batteri, virus e parassiti. L’analisi molecolare dei patogeni antichi può fornire un valido aiuto per ricostruire l’evoluzione delle epidemie del passato e per perfezionare i più recenti modelli di infezioni emergenti, fornendo quindi un importante contributo allo sviluppo di adeguate misure preventive» (G. Cornaglia, Verona)19.

Tutte le grandi epidemie, di ieri e di oggi, specie se provocate da microrganismi nuovi e sconosciuti al sistema immunitario dell’ospite, impattano in modo imprevedibile con questi tanto da modificarne, anche persistentemente, geni e risposte umorali e/o cellulari20. La peste nera selezionò nuove varianti geniche, nell’immunità naturale, sia di suscettibilità che di resistenza, ancor oggi attive verso diversi patogeni. H1N1 (Spagnola) determinò un’epidemia influenzale con manifestazioni impreviste e letali provocate da antigeni mutati e sconosciuti. COVID-19 ha evidenziato nuovi aspetti immunitari e microbiologici ancora allo studio. Sono alcuni esempi che sottolineano l’importanza di indagare infezioni ed epidemie di ieri con tecniche molecolari d’avanguardia.


Dal mito, alla storiografia alle…moderne biotecnologie. Il virus H1N1 della «Spagnola»: recupero e ricostruzione

Oggi conosciamo assai bene le caratteristiche molecolari del virus H1N1 responsabile della “Spagnola” (1918-20), grazie alla ricostruzione del suo genoma e di diversi prodotti proteici, dopo averlo recuperato da biopsie di soldati deceduti nel 1918 e da scheletri ben conservati nel ghiaccio o nel permafrost delle vittime di 100 anni fa, perlopiù nativi dell’Alaska o altre zone periartiche21. È stato dimostrato che il virus dell’epidemia del 1918 era interamente nuovo per l’umanità: da qui l’impatto devastante e imprevedibile con il nostro sistema immunitario, che andò incontro a reazioni e modifiche, in geni cruciali e mediatori della risposta immunitaria innata.Mutazioni di H1 permettevano al virus di aderire ed entrare anche nelle cellule degli alveoli, danneggiandone le pareti e causando copiose emorragie; quattro geni virali specifici (PA,PB1-2,NP) codificavano per l’RNA polimerasi e per varianti proteiche altamente lesive; il gene PB1-F2 favoriva le sovrainfezioni batteriche; infine, NS1 e H1 inibivano l’azione degli interferon e iperstimolavano diversi clusters genici dell’ospite preposti alle reazioni infiammatorie e all’apoptosi, con conseguente esagerato rilascio di citochine proinfiammatorie («cytokine storm») ed esteso danno polmonare22.


«Pesti» dell’antichità

I termini generici di “peste e pestilenza” sono stati anticamente impiegati per indicare qualunque patologia a carattere diffusivo in una popolazione: pertanto né queste etichette, né le descrizioni letterarie, che abbiamo già ricordato, dall’epoca arcaica dei miti, alle successive fasi di una nascente storiografia, ci aiutano ad avanzare ipotesi realistiche sull’esatta natura biologica di quei lontani eventi. Ricordiamo, nel nostro mondo occidentale, e mediterraneo in particolare, tra le pestilenze riportate in letteratura e legate a miti della Grecia arcaica: la peste narrata da Omero, all’inizio dell’Iliade, XIII/XII secolo a.C.; la peste degli «Alcmeonidi», Atene, 630 a.C.; la peste descritta da Sofocle nell’Edipo tiranno, circa 425 a.C.. In un’epoca imprecisata (VIII secolo a.C.?), a Corinto si diffuse un’epidemia accompagnata da sterilità dei campi; in quella circostanza fu un Poseidone offeso e vendicativo a intervenire, in seguito alla contesa tra Melisso e Archia: il primo si suicidò dall’alto del tempio del Dio, il secondo fuggì con i suoi seguaci in Sicilia e fondò una nuova città, Siracusa.

Le principali pestilenze storicamente documentate sono: la peste (o tifo?) di Atene, 430 a.C.; la pestilenza che colpì i Cartaginesi durante l’assedio di Siracusa, 395 a.C.; la peste di Tito, 79/80 d.C.; la peste (o vaiolo?) Antonina, 165-190 d.C.; la peste (o vaiolo? febbre emorragica?) Africana, 250 d.C.; la peste di Giustiniano, VI-VII-VIII secolo d.C.; le epidemie di peste nel mondo islamico, a partire dall’Egira: la "peste di Shirawayh" (627-628), la "peste di 'Amwas" (638-639), la "peste violenta" (688-689), la "peste delle vergini" (706) e la "peste dei notabili" (716-717)8. La prima descrizione attendibile di un’epidemia, punto fermo della ricerca storiografica e modello per secoli, è la narrazione di Tucidide della peste di Atene del 430/29 a.C., nel II libro della “Guerra del Peloponneso”4: colpì lo stesso autore, uno dei pochi sopravvissuti. La prima attestazione epigrafica in merito ad un’antica, devastante epidemia è un frammento di lapide funeraria rinvenuto a Cordova, con l’iscrizione: «ab inguinali peste obiit aera DCXLVII», morto per infezione all’inguine (un bubbone linfoghiandolare?) nell’anno 647 dell’era ispanica». Trattasi dell’unica testimonianza epigrafica relativa alla «peste di Giustiniano», che imperversò in tutta l’area mediterranea dal 540 al 750 d.C., in più ondate23.


La “peste di Atene”: inquadramento storico, narrazione di Tucidide, indagini attuali per comprenderne l’agente patogeno causale

Esordì nel 430 a.C., II anno della guerra del Peloponneso e colpì Attica e Mediterraneo orientale, tornando in altre 2 ondate, 429 e 427/6 a.C.. L’infezione entrò in Grecia presumibilmente con le navi, le merci e i viaggiatori contagiati provenienti da Egitto, Etiopia e Libia, ove già imperversava, nel porto del Pireo e da lì all’interno delle «lunghe mura» in città, sovraffollata per i contadini fuggiti dalle campagne circostanti invase dagli Spartani e in condizioni igieniche disastrose. 75.000, secondo stime ovviamente presuntive, furono i morti nella sola città: fra di essi, Pericle e 2 suoi figli, mentre Tucidide, pur contagiato e ammalato, guarì: pertanto la sua narrazione, inserita nella monumentale «Guerra del Peloponneso», resa pubblica pochi anni dopo, deriva dall’osservazione di un testimone diretto e coinvolto. Tucidide ha lasciato di questi eventi un resoconto puntuale, lucido, affidabile; ritenuto un «semiologo» in storiografia, politica e sociologia (fondamentali le descrizioni delle ricadute sociali dell’epidemia e dello sfascio della comunità civile), si dimostra tale anche nella narrazione, oggi diremmo «clinica» di segni e sintomi, in assenza di altri riscontri di pertinenza dei medici, travolti anch’essi e inermi di fronte al male. Un male che, per la prima volta nell’antichità, viene illustrato oltre e senza un presunto intervento divino24.

Riportiamo il brano in cui il “semiologo” Tucidide descrive i sintomi della malattia. «…le persone erano dapprima colpite da un forte calore alla testa, con arrossamento e infiammazione agli occhi: le parti interne, gola e occhi, erano subito rosso sangue, e ne emanava un fiato irregolare e maleodorante. Sopraggiungevano poi starnuto e raucedine, e in non molto tempo la malattia scendeva al petto con forte tosse. Se giungeva alla bocca dello stomaco, lo rivoltava e ne derivavano evacuazioni di bile di tutte le specie nominate dai medici, e questo determinava una sofferenza enorme. La maggior parte fu colta da conati di vomito a vuoto, che causavano spasmi violenti, in alcuni casi dopo che queste evacuazioni erano cessate, in altri molto più tardi…La morte sopraggiungeva tra il 7° e il 9° giorno, in malati in preda ad un’arsura che consumava le viscere ed elevata temperatura interna del corpo…ma anche dopo ulteriori giorni di sofferenze, in cui comparivano insonnia, diarrea liquida, ulcere interne e alle estremità, mani, piedi e genitali». Quattro secoli dopo, nel «De rerum natura», Lucrezio ne darà una descrizione sostanzialmente simile, ancor più drammatizzata negli esametri in cui l’opera è composta per illustrare e giustificare l’ortodossia epicurea.

In sintesi, riportiamo i risultati, ancora preliminari, relativi alle applicazioni delle moderne biotecnologie per la ricerca di aDNA e le ipotesi che ne sono scaturite. Nel 2005 è stato estratto aDNA microbico dalla polpa dentale di denti recuperati dal cimitero del Ceramico ad Atene, di scheletri datati alla metà del V secolo a.C.. I defunti erano stati deposti in fosse comuni e non presentavano segni di lesioni o violenza sulle ossa. Protagonista della scoperta è stato l’archeologo M. Papagrigorakis. Le sequenze identificate sono pertinenti al genoma dei batteri della febbre tifoidea (Salmonella typhi)25. In seguito, altri ricercatori hanno contestato questi risultati, evidenziando difetti metodologici nella procedura seguita per lo studio del DNA dei reperti del Ceramico. Rimane questa ad oggi, pur nei suoi limiti, l’unica indagine pubblicata di antropologia molecolare relativa alla peste di Atene del 430 a.C.. Autori di lingua inglese, quali A.W. Gomme e D. Durack, analizzando criticamente i sintomi descritti da Tucidide, in particolare quelli terminali, propendono per il tifo esantematico26. Di recente, basandosi anche sul testo di Lucrezio, è stata avanzata l’ipotesi di una causa virale, tipo Ebola o Marburg, anche per la provenienza africana. L'identificazione basata sul aDNA è limitata dall'impossibilità, per alcuni patogeni, di recuperare impronte genetiche dopo millenni da reperti archeologici con le tecniche attuali: tra questi, i virus succitati. L’individuazione precisa dell’agente patogeno della peste di Atene, e di altre epidemie del passato, potrebbe non essere più attuabile.


La “peste nera”

Dal 1300 in poi, è stata probabilmente l’epidemia più devastante, in epoca storica, dell’umanità; al seguito di navi mercantili provenienti dal Mar Nero, a partire dal 1347, si diffuse rapidamente in Europa, medio-oriente e Africa settentrionale, uccidendo almeno 50 milioni di persone e imperversando in successive ondate anche nei secoli successivi. Famose le descrizioni che ne fecero Petrarca e Boccaccio. Mentre abbiamo ricostruito le vie di diffusione della peste, dapprima terrestri, dall’Asia verso occidente attraverso i principali percorsi commerciali (ad es., la via della seta), e poi marittimi, perlopiù dai porti della Crimea a quelli del Mediterraneo, la sua esatta origine, da una zona imprecisata dell’Asia centrale, è rimasta a lungo un mistero: una serie di ipotesi mai del tutto confermate, che hanno visto la pandemia, passata alla storia come “peste nera”, prendere il via ora dalla Cina, ora dal medio-oriente. Un nuovo studio sembra chiudere definitivamente la querelle, indicando la sua vera origine nel Kirghizistan, nella zona attorno al lago Issyk-Kul (o Isik-Kol). Qui, 140 anni fa, vennero scoperte sepolture multiple con iscrizioni che facevano riferimento ad una pestilenza misteriosa. Oggi è stato recuperato aDNA microbico da quelle ossa, che ha confermato la presenza del genoma di Y.pestis, peraltro di un ceppo accostabile a quelli oggi presenti nella stessa area e in zone limitrofe dell’Asia centrale: da lì dunque sarebbe partita la più grande epidemia del passato27. Lo stesso ceppo è stato ritrovato in ossa di deceduti per la peste del ‘300 in Medio-oriente, Italia e Inghilterra.


Paleomicrobiologia e antichi casi di malaria

Per quella che, da millenni, è la più diffusa parassitosi umana, tanto da divenire endemica in diverse aree del mondo e rappresentare ancor oggi una delle maggiori cause di morte, sia nell’infanzia, che in età adulta, sono stati condotti numerosissimi studi sulla sua storia e coevoluzione con la nostra specie. Conosciamo pertanto in quali epoche una situazione endemica si è trasformata in vera e propria epi/pandemia, riducendo drammaticamente l’assetto demografico di interi territori, e condizionando situazioni politiche, economiche e sociali, sì che parliamo di “rivoluzioni o cambiamenti storici epocali”. Riportiamo pertanto due esempi ben documentati, ora anche molecolarmente e geneticamente, di eventi del passato in cui la malaria assunse un ruolo determinante.


“Il crepuscolo genetico” della XVIII dinastia faraonica (1543-1292 a.C.)

Cosi è stata definita la conclusione non solo di una delle più lunghe dinastie (250 anni), ma di uno dei periodi più oscuri dell’antica storia egiziana; le indagini molecolari e antropologiche condotte sulle mummie reali, re, regine, congiunti, hanno innanzitutto rivelato precisi, e spesso ignoti, gradi di parentela, quale ad esempio il rapporto padre-figlio fra Akhenaton/Amenofi IV e Tutankhamun (mentre Nefertiti, principale sposa reale del primo, non fu la madre del secondo), nonché una serie di situazioni patologiche che ci aiutano a comprendere gli eventi di 33 secoli fa (per ulteriori dettagli, già pubblicati, vedi: Belli F.14).

Tutankhamun era affetto, come la maggioranza dei membri della famiglia, da malaria e diverse patologie congenite28: morbo di Köhler, sindrome di Freiberg-Köhler con necrosi asettica ossea che contribuirono, l’una e le altre, a iposviluppo e immunodeficit: quest’ultima è situazione tipica di un’infezione malarica persistente, da ripetute recidive multiple e da ceppi differenti. Il giovane faraone, che poteva camminare solo con l’ausilio di bastoni, morì intorno ai 18 anni in seguito ad una grave ferita suppurata riportata ad una gamba durante una battuta di caccia. Con la moglie-sorella generò solo feti morti. Numerose patologie osteoarticolari sono state ritrovate nella maggioranza delle mummie reali; Akhenaton e altri soffrivano di sindrome di Marfan. Ritenendosi divini e icontaminabili, gli ultimi rappresentanti della dinastia si unirono solo fra di loro trasmettendosi diverse patologie congenite e non e divenendo incapaci di generare una progenie sana.

Per quanto riguarda la malaria, nella mummia di Tutankhamun, dei suoi nonni materni, Yuja e Tuya, di altri collaterali, è stato trovato aDNA di P.falciparum (positività per 1 o più geni fra: STEVOR, AMA1, MSP1). Il riscontro di 2 alleli diversi, MAD20 e RO33 del gene MSP1, nei campioni di Tutankhamun e di altri, depone per infezioni multiple e ripetute da parte di ceppi differenti del parassita29. Oggi come ieri, nelle zone a endemia malarica, le infezioni multiple sono la norma: molteplici ceppi differenziati circolano in aree e stagioni diverse. Per quanto riguarda il ruolo della malaria come causa di morte di questi personaggi reali, ovviamente non vi sono prove definitive, ma sappiamo che coloro i quali superavano i 50 anni, sviluppavano una robusta immunità verso il parassita, con cui potevano convivere in simbiosi e quiescenza dell’infezione. Al contrario nei giovani la malaria era un’importante causa di morte: nel faraone, già debole e defedato per le altre patologie, l’infezione deve aver avuto un decorso maligno e contribuito alla sua fine prematura, insistendo su un substrato di defedamento e immunodeficit; e di malaria perirono anche altri membri giovani della casa reale. In definitiva, a determinare la fine della dinastia fu, dal punto di vista biologico, il mix di malattie infettive (malaria), patologie congenite ereditarie, specie osteoarticolari, la stretta e vincolante endogamia familiare.


La caduta dell’impero romano e la (ri)diffusione della malaria in Italia

Il III sec d.C. registra una serie di epidemie (peste, vaiolo) e il ritorno, diffusamente, della malaria in Italia: eventi che coincidono con il declino della Roma imperiale, anche sul piano socio-sanitario, e segnato dall’anarchia militare, dalle invasioni barbariche, dall’indebolimento del tessuto economico. Declino che si farà definitivo, dopo un ultimo risollevamento delle sorti della struttura imperiale ormai agonizzante, nel IV secolo, all’inizio di quello successivo, con l’abbandono di Roma nel 402 da parte degli imperatori. Come sempre accade nella storia, la fine di un esteso potere politico coincide anche con una globale decadenza culturale, anche in campo scientifico: si perse infatti il patrimonio di conoscenze mediche e ingegneristiche (tutela del territorio, regolamentazione delle acque, di cui i popoli italici, gli Etruschi prima, i Romani poi, furono maestri specie in Italia centrale) ereditate dagli antichi30. Là dove sorgevano «domus rusticae», che si prendevano cura delle campagne, ora tornano paludi, acquitrini e…zanzare, quindi le febbri malariche. Nel V secolo, teatro di gravi sconvolgimenti politici, l’epidemia malarica si diffonde in molte parti della penisola italica, anche nella stessa Roma, che in uno stato di degrado urbano e sociale, subisce continue piene del Tevere, che coinvolgono, a nord, anche le campagne umbro-laziali. Il P.falciparum, fino all’VIII secolo, progressivamente si diffonde fino alle zone di Ferrara e Ravenna, al delta del Po, alla Laguna Veneta, ai piedi delle Alpi. Tutte le epidemie sono favorite dalle invasioni barbariche, dalle guerre, dalle carestie, dai disboscamenti e impaludamenti, dall’abbandono dei campi31.

La testimonianza che riportiamo riguarda gli studi molecolari, invero ancora preliminari, condotti sui reperti del sito archeologico di Poggio Gramignano, ai piedi della collina ove sorge la cittadina di Lugnano in Teverina, nel cui museo sono conservati scheletri di infanti e resti di una villa romana trasformata in necropoli, non lontano dall’odierno lago di Alviano e dal fiume Tevere, zona depressa e anticamente parte di una vasta area paludosa.

La necropoli dei bambini di Poggio Gramignano, di epoca tardo romana, consiste in decine di sepolture che sono state datate intorno alla metà del V secolo (anche se probabilmente fu utilizzata per altri 3/4 secoli) e riguardanti esclusivamente corpi di bambini (perlopiù neonati) e feti abortiti. Numerosi indizi suggeriscono che le morti si consumarono tutte in pochi anni, circostanza che ha indirizzato verso l'ipotesi di un’epidemia: ci troviamo verosimilmente di fronte ad una delle prime evidenze archeologiche della malaria. La mancanza di segni di cristianità nelle sepolture, e al contempo la presenza di simboli pagani, induce a ritenere che la zona pertinente la valle del Tevere fra Umbria e Lazio fosse abitata da popolazioni ancora profondamente permeate da una religiosità pagana. Possiamo indicare, quale unico segno riferibile ad un possibile influsso della spiritualità cristiana, proprio il rito di sepoltura di bambini così piccoli, usanza praticamente sconosciuta nel mondo romano precristiano. Gli scavi presero il via negli anni 1988-92 ad opera dell'équipe di D. Soren32 dell'Università di Tucson, Arizona, che individuò una necropoli ben organizzata e utilizzata dal V secolo; le sepolture sono state rinvenute all'interno di una villa romana di età augustea, costruita intorno al 15 d.C. ma già in rovina dal III secolo, per la subsidenza di un suolo acquitrinoso e anche a causa del peso della costruzione, la quale era articolata in una vasta area di oltre 1800 m2, una vera «domus rustica»33. Gli ambienti interni adibiti successivamente a necropoli erano sostanzialmente 3, più 2 minori, con le ciste o gli inumati disposti in ordine lungo le pareti. Tra i sistemi di sepoltura utilizzati vi era quello «a cista o a enchytrismos»: i corpi, in posizione raccolta, furono inseriti (incistati) all'interno di contenitori, anfore riadattate allo scopo. Alcuni corpi furono semplicemente inumati e collocati sotto frammenti di anfore o tegole provenienti dalla villa in rovina34.

Negli ultimi anni i piccoli scheletri (ossa, denti) sono stati sottoposti a indagini di antropologia molecolare, paleogenetica e paleomicrobiologia, con le tecniche più aggiornate, indagini tutt’ora in corso, parzialmente pubblicati, per cui riportiamo solo alcuni dati preliminari.

Le ossa dei bambini, con una struttura a nido d'ape, mostrano chiari segni di anemia, caratteristica che ha fatto pensare, quale possibile causa dei decessi, alla malaria. I dati paleopatologici hanno corroborato l’ipotesi che l'accumularsi di tante morti infantili in un breve arco di tempo sia imputabile alla malaria che in quel periodo e in quel territorio ebbe una marcata recrudescenza. Ciò ha stimolato successivi studi sul aDNA, umano e microbico, sui reperti di Gramignano. Ossa e denti, analizzati presso l'Institute of Science and Technology di Manchester e il Dept. of Evolution, Genomics and Systematics di Uppsala, hanno rivelato la presenza inequivocabile di sequenze di aDNA e rRNA relative e specifiche di P.falciparum35. La necropoli di Poggio Gramignano è pertanto, ad oggi, la più antica testimonianza su base genetica e molecolare della penetrazione, nell’area mediterranea, di P.falciparum, un evento epidemiologico che avrà notevoli ripercussioni sulla storia europea, e italiana, in particolare, anche nei secoli successivi.

Tuttavia, la (ri)diffusione e la recrudescenza della malaria che colpì così duramente i bambini della Val Tiberina, contemporaneamente potrebbero (il condizionale è d’obbligo) aver protetto l’Italia, abitanti e testimonianze romane, dalla distruzione, interferendo nelle scelte di Attila, che nel 452 rinunciò repentinamente al suo proposito di calare su Roma e, dal suo accampamento presso il Po, tornò con rapidità in patria (odierna Ungheria); una decisione di grande valenza storica, che non trova ancora una spiegazione univoca tra gli studiosi. Conosciamo un preciso resoconto letterario riguardo l’insalubrità delle zone dell’Italia centrale che stiamo descrivendo: in quegli anni Sidonio Apollinare36, poeta, vescovo di Clermont-Ferrand, funzionario imperiale e poi santo, percorse l'Italia da Ravenna a Roma. Nel suo viaggio attraversò proprio i luoghi insalubri dell'Umbria, dell'Etruria e del bacino del Tevere, fino a Roma, lasciandoci una testimonianza scritta degli effetti delle febbri e degli accessi di sete insaziabile, evidenti sintomi malarici, che colpivano gli abitanti di quei luoghi. Le “Leges novellae divi Valentiniani” (V secolo)37 riportano come fatto certo che, tra i motivi che determinarono la rinuncia di Attila, vi fosse l'imperversare di una non meglio precisata pestilenza, progressivamente mentre attraversava l’Italia, nel suo esercito, tant’è che ne fu decimato. E sappiamo che più si scendeva a sud, verso Roma, più la situazione peggiorava, notizia che agli Unni fu di certo riportata. È possibile, secondo D. Soren, collegare questa cronaca al resoconto epistolare di Sidonio, e concludere che quella pestilenza non fosse altro che malaria.


Per concludere, tra storiografia e…commedia

Lasciamo la conclusione alle parole di E. Stolfi3, docente di storia e diritto delle antichità greco-romane, che sottolineano l’importanza e il significato ancora attuale di rivolgere la nostra attenzione a mondi culturali che potrebbero apparire ormai obsoleti, e che invece hanno ancora molto da insegnarci: un punto di partenza anche per applicare e interpretare i risultati delle più moderne biotecnologie, un substrato di conoscenze imprescindibile. «Abbiamo ancora bisogno degli antichi?... quelle pagine remote non cancellano la ricchezza di suggestioni che ci consegnano… anche le epidemie non sono altro che storia, dell’uomo e dell’ambiente in cui vive. Uno dei suoi capitoli più dolorosi e ricorrenti…addentrandoci nella loquace inquietudine di quei testi, sicuramente non ce ne rende immuni…ci aiuta a capire. Educa a interrogare criticamente il nostro tempo, a saperlo guardare da fuori senza rimanere succubi del contingente. Del resto, a che altro dovrebbe servire la STORIA?».

Dopo aver descritto tanti lutti e rovine portati nel corso della storia da epidemie così devastanti, che ancor oggi ne studiamo caratteristiche e particolari, terminiamo con una nota più leggera, legata alla tipica commedia all’italiana, “nazional-popolare”. Le epidemie del passato erano designate con diversi termini: peste, pestilenza, morbo, malattia, castigo divino, etc. I Greci parlavano spesso di «Νοῦσος κακή», letteralmente «malo morbo», espressione mai usata nella nostra letteratura, né colta, né popolare, ma che riappare a metà ‘900 sulla bocca di uno dei più «coraggiosi» eroi della nostra commedia: «lo malo morbo che insozza, contagia e puzza: la peste!» (Brancaleone da Norcia, dal film: “L’armata Brancaleone”, di M. Monicelli)38.


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