Prof. Francesco Belli

Docente di Immunologia, Corso di Laurea in Biotecnologie, “Sapienza” Università di Roma

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2015-2016

Vol. 60, n° 3, Luglio - Settembre 2016

Settimana per la Cultura

12 aprile 2016

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Uomini e microbi, compagni di viaggio in antichi e nuovi percorsi migratori

F. Belli

“Spostarsi sul territorio è una prerogativa dell’essere umano, è parte integrante del suo ‘capitale’, è una capacità in più per migliorare le proprie condizioni di vita. E’ una qualità connaturata, che ha permesso la sopravvivenza dei cacciatori-raccoglitori, la dispersione della specie nei continenti, la diffusione dell’agricoltura, l’insediamento in spazi vuoti, l’integrazione del mondo, le prime globalizzazioni” e, aggiungeremmo noi, lo scambio di idee, tecnologie, culture. In questa citazione di M.Livi-Bacci1, economista ed esperto in demografia e storia delle migrazioni umane, è compendiata una delle caratteristiche peculiari della nostra specie, un “marker” – come si dice oggi -  che, come traspare da queste righe, è connaturato, come fosse insito nel genoma dell’uomo: l’anelito, il desiderio, la necessità di viaggiare, migrare, invadere il mondo, ieri, oggi e sicuramente, ancor più in futuro, tant’è che siamo l’unica specie che ha occupato ogni angolo della terra. Una caratteristica che ha marcato, nell’ambito del genere Homo, anche molte specie pre-sapiens “out of Africa”2; in seguito, H. sapiens ha trascorso oltre la metà della sua esistenza (almeno 100.000 anni, secondo le prove più recenti) a oltrepassare gli orizzonti africani ed espandersi in ogni continente, occupando terre già raggiunte da altri ominidi scomparsi o coevi (Eurasia) o totalmente inesplorate (Oceania e Americhe)3.

Ma vi è molto di più, non possiamo certamente accontentarci di inquadrare un aspetto così fondamentale dell’essere umani nel calderone, sconfinato ma anche generico, della “genetica”:  pressioni e/o opportunità sono sempre state, lo sono oggi e sempre lo saranno dietro ogni migrazione umana; qui i fattori sono veramente infiniti e ogni elenco non può non essere parziale. Proviamo a citarne alcuni: crisi demografiche; crisi alimentari e idriche, carestie e ricerca del cibo; crisi economiche; guerre e persecuzioni; cambiamenti climatici; scambi commerciali; perdita o ricerca di nuovi territori; scambi culturali e tecnologici; input spirituali e religiosi; disponibilità di nuove vie e mezzi di trasporto; epidemie.

Alcuni fattori sono o sono stati solamente una pressione o un’ opportunità,  altri una pressione in alcune circostanze, un’ opportunità in altre.

Che cosa ha portato e porta l’uomo, con se, nei suoi viaggi per il mondo? Anche in questo caso un elenco non può mai essere esaustivo, ma proviamo a ricordare alcuni tratti essenziali, beni materiali e immateriali: idee, arte, cultura, miti, usanze, spiritualità,  tecnologia, sogni, speranze, ricordi e memoria, insegnamenti4. Ma, affrontando la questione in modo assai più realistico e aderente alla realtà, Darwin, pur essendo quasi digiuno di microbiologia e in un’epoca in cui questa disciplina muoveva i primi passi, affermava: “Gli uomini, nei loro viaggi e migrazioni, sono sempre stati accompagnati  dalle proprie pulci !!!”5, sottolineando che oltre a idee, pensieri e opere dell’ ingegno, nostri compagni sono inevitabilmente stati e sempre saranno i fattori causali (che da 150 anni chiamiamo microbi) delle malattie infettive, per cui è l’uomo, con i suoi spostamenti per il mondo, da solo o in gruppi, il grande untore di se stesso, della propria specie.

Pertanto i microrganismi sono i nostri indesiderati compagni di viaggio, oggi e in futuro ancor più a causa dell’implementamento delle vie di comunicazione, della rapidità degli spostamenti, di mezzi di trasporto più progrediti; parliamo di una microbiologia d’importazione e/o esportazione, di una storia microbiologica ed epidemiologica delle migrazioni antiche e attuali6.

La descrizione e la comprensione dei fenomeni migratori attuali in ogni aspetto, compreso quello, fondamentale, sanitario ed infettivologico in particolare, nonché la previsione di quanto accadrà ineluttabilmente a breve in un prossimo futuro, passano attraverso la conoscenza del passato e della storia di antiche interazioni uomo-patogeni, in epoche storiche e protostoriche; materia complessa e controversa da ricostruire, fino a pochi anni or sono quasi solo speculativa, ma che al pari di altre indagini analitiche del nostro ieri si avvale oggi di metodiche di studio innovative: antropologia molecolare, paleopatologia, sequenziamento del DNA antico dell’uomo e dei microrganismi, allestimento di alberi filogenetici7,8.

Esemplifichiamo pertanto antichi percorsi migratori mediante la ricostruzione delle interazioni uomo-patogeni in 3 infezioni letali e diffuse: due antichissime, malaria e tubercolosi, i cui agenti causali hanno preceduto la comparsa dell’uomo di centinaia di migliaia di anni, la terza ritenuta fra le più devastanti comparse nell’ultimo secolo, l’influenza spagnola.

Malaria. Plasmodi,zanzare e ominidi (H. sapiens, ma non solo) condividono una lunga storia coevolutiva.  L’ analisi multigenica filogenetica e gli alberi filogenetici dei plasmodi, in base al genoma mitocondriale, presentano prove dell’ antichità  e della diversificazione nel tempo  dei maggiori protozoi africani di malaria; discorso sostanzialmente simile può esser fatto per le zanzare del genere anofele. Gli uni (I plasmodi) e le altre (zanzare), al pari dell’uomo, sembra ormai definitivamente dimostrato, hanno un’origine africana e da lì si sono diffusi nel resto del mondo9.

Quando H.sapiens ha fatto la sua comparsa in Africa, molti patogeni che accompagneranno la sua evoluzione erano già presenti, come attestano prove paleopatologiche della loro capacità infettante in antichi primati e specie pre-sapiens:  tra questi, i plasmodi della malaria e i micobatteri.

Per quanto riguarda l'infestazione da diversi tipi di plasmodi, sappiamo che la loro presenza è antichissima, da milioni di anni sono in contatto con diversi animali, soprattutto uccelli e mammiferi, tra questi ultimi primati ma non solo, oltrechè con le zanzare del genere anofele.

Nel rapporto simbiontico plasmodio-anofele-mammiferi, primati e umani si collocarono come ospiti intermedi, non sappiamo quanti e quali fra questi, ospitando forme di transizione del parassita, contrassero quello stato patologico che chiamiamo malaria: probabilmente diversi primati, presumibilmente più specie pre-sapiens, certamente H.sapiens.  Di plasmodi ne sono esistiti e ne esistono diversi, possiamo ipotizzare anche nei loro confronti una complessa serie di eventi evolutivi che ne hanno determinato mutazioni, estinzioni e trasformazioni; oggi le specie patogene per l'uomo sono rimaste alcune unità10.

I Plasmodi malarici si distinguono per due percorsi evolutivi, da un punto di vista biologico e filogenetico. In particolare, Plasmodium vivax, Plasmodium malariae, e Plasmodium ovale, si sarebbero caratterizzati per una co-evoluzione con il genere umano e avrebbero parassitato la specie umana nelle fasi più antiche dell’evoluzione del genere Homo.  D’altra parte, Plasmodium falciparum  è stato trasmesso all’uomo dai primati in periodi storici più recenti, probabilmente tra la fine dell’era Mesolitica e l’inizio dell’era Neolitica.

Le zanzare, e quindi i plasmodi, hanno sempre accompagnato l’uomo nei suoi cambiamenti territoriali epocali: dalla foresta, alla savana, alle praterie, ai primi campi coltivati, in Africa e oltre l’ Africa, tutti adattandosi e mutando in nuove forme11.

Nell'evoluzione del parassita, nella sua relazione simbiontica con le zanzare e nell' effetto patogeno per l'uomo o altri animali hanno giocato un ruolo importante l'ambiente e il clima; possiamo delineare uno scenario in cui zanzare, plasmodi e ospiti intermedi erano coinvolti nelle foreste caldo-umide tropicali ed equatoriali, ove vivevano ominini a vita prevalentemente arboricola; la savana secca e arida, occupata successivamente da specie terricole, non era l'habitat ideale per la zanzara, se non, rifacendoci a quanto accade oggi, durante la stagione più umida delle piogge. Un'epoca ritenuta fondamentale coincide con il tardo Mesolitico e l'inizio del Neolitico, quando l'uomo ha iniziato a modificare l'ambiente, disboscando e preparando il terreno per le nuove attività agricole e pastorali: abbiamo prove archeo-paleopatologiche di una diffusione della parassitosi, anche a latitudini più a nord e più a sud dei tropici, favorita da campi irrigati, paludi, fonti e acque stagnanti. Le "vecchie" zanzare boschive abbandonarono il pregresso habitat, probabilmente mutando ed evolvendo in nuove forme che ben si adattarono nel diverso paesaggio, fino ad occupare le aree periurbane costruite dall'uomo e diffondendo tra le nuove popolazioni di agricoltori-allevatori i plasmodi patogeni12.

In epoca storica, in quest'ampia circolazione di zanzare e parassiti il Mediterraneo venne ampiamente coinvolto: le sue coste paludose, il caldo umido, erano condizioni ideali e, come sappiamo, la Grecia, l'Egitto (le zanzare vettori dei plasmodi furono descritte nella Bibbia, Esodo, come la terza piaga), la Mesopotamia, la stessa Italia furono pesantemente interessate. Le coste tirreniche della Maremma e del Pontino, paludose, hanno ospitato zanzare e plasmodi molti secoli prima dell'avvento di Roma, colpendo pesantemente popoli pre-romani, come gli Etruschi e contribuendo al declino delle città marittime; si dibatte e forse non potremo mai dimostrare se l'infestazione, in Italia, fu autoctona o importata dall'oriente tramite migranti e commercianti malati13.

Tanto i cambiamenti comportamentali, quanto le modificazioni biologiche causate dalla presenza dei plasmodi malarici, hanno favorito e selezionato l’emergere, l’amplificarsi e il diffondersi, attraverso le migrazioni, di gruppi di popolazione in grado di esprimere più elevati livelli di resistenza nei confronti della malaria stessa. La pressione selettiva determinata dalla presenza e dalla persistenza dell’infezione malarica ha, evolutivamente parlando, condizionato tutto questo. L’impatto demografico sfavorevole della malattia è stato pertanto contenuto, influenzando nel contempo in misura positiva il progresso e lo sviluppo generale della civiltà.

La selezione di gruppi di popolazione più resistenti e la diffusione nel mondo di mutanti vantaggiosi riguardano due ordini di fattori: i polimorfismi delle catene β dell’emoglobina,  ad esempio le varianti S-C-E dell’emoglobina stessa, ma non solo e le mutazioni di recettori cellulari di superficie, perlopiù molecole dell’immunità innata, comunque coinvolte nell’adesione e nella penetrazione intraeritrocitaria e intraepatocitaria dei plasmodi. Gli uni e gli altri  sono esempi classici di meccanismi protettivi e dell’adattamento selettivo dell’uomo ad una malattia infettiva, sotto la pressione degli agenti patogeni causali, aggressivi e letali14,15,16.

Quali sono i numeri, oggi, della malaria nel mondo, una delle massime emergenze sanitarie a livello globale? Si tratta di cifre impressionanti17:

-          Il 40 % della popolazione mondiale vive nelle aree endemiche per Pl.falciparum e 2.2 miliardi di persone sono infettate, in oltre 100 nazioni;

-          Il numero di casi/anno, vecchi+nuovi, è attestato intorno a 500 milioni: 70% in Africa, 25% nel sud-est asiatico e Pacifico, 5% in centro e sud-America;

-          Ogni anni muoiono 1.000.000 di persone, 3000 bambini al giorno, perlopiù < 5 anni e donne in gravidanza, in Africa e sud-est asiatico;

-          2.85 miliardi di persone sono infettate da Pl.vivax, soprattutto in India18;

-          10.000 / 30.000 viaggiatori europei e americani si ammalano ogni anno di malaria, dopo viaggi nei paesi endemici.

Le migrazioni delle popolazioni, spesso provocate dalla malaria stessa, insieme agli scambi commerciali e alle guerre, hanno in epoche passate favorito la diffusione dei parassiti malarici, dalle zone tropicali e sub-tropicali originarie, ad aree più temperate del pianeta. Oggi questi fattori si ripropongono, come cause primarie di estensione della malattia, insieme ai cambiamenti climatici: saranno certamente responsabili anche negli anni prossimi a venire19.

Tubercolosi e infezioni micobatteriche. I micobatteri sono tra i patogeni per l'uomo e diversi animali più antichi che si conoscano e hanno accompagnato l'evoluzione di diverse specie di ominidi:  si ritiene infatti che i primi microrganismi arcaici del genere comparvero in Africa almeno tre milioni di anni fa. Siamo riusciti ad ottenere una ricostruzione filogenetica dei micobatteri: tra le procedure adottate, ricordiamo quella che si è avvalsa del rapporto, nell’ambito di 19 taxa micobatterici, ottenuto dal confronto  tra le sequenze di oltre 1000 proteine omologhe di specie. Tra gli alberi filogenetici proposti, sottolineiamo quello allestito con il metodo del “Consensus network “, mediante il confronto di 1,011 miliardi di aminoacidi nelle sequenze proteiche e una soglia di divergenza del 10%20.

E’ pertanto confermato che il genere "Mycobacterium" è uno dei taxa batterici più antichi a oggi noti; fra le malattie umane causate da micobatteri, due sono antichissime, la tubercolosi da M.tuberculosis e la lebbra, provocata da M.leprae: di entrambe abbiamo prove paleopatologiche nonchè riferimenti in fonti scritte e raffigurative in diverse civiltà.

Di recente si sono accumulate numerose testimonianze paleopatologiche dell’antichità delle infezioni micobatteriche, umane e animali, molte delle quali confermate anche dai tests molecolari e genetici21. Ricordiamo, tra gli altri:

-          Kocabas (Anatolia): cranio di H.erectus di 500.000 ya, affetto da leptomeningite tubercolare22;

-           aDNA di M.africanum evidenziato in mummie egiziane di 40/36 secoli fa;

-          aDNA riferibile a M.bovis recuperato in lesioni ossee da morbo di Pott  in corpi di 23 secoli fa, trovati in Siberia: questo vasto territorio, con la sua tundra gelata e la circolazione di aria secca, si presta assai bene alla conservazione ottimale di uomini e animali antichi e di materiale genetico (umano, animale e microbico) in buone condizioni per poter essere recuperato, estratto e e sequenziato;

-          I reperti più antichi con lesioni tubercolari confermate dalla biologia molecolare, sono: per gli animali, aDNA di M.tuberculosis complex  riscontrato nel metacarpo di un bisonte americano di 17.500 ya.; per H.sapiens, le prove più antiche risalgono al Neolitico23.

Le ricostruzioni filogenetiche indicano che micobatteri ancestrali, da cui sarebbe in seguito scaturito anche M. tuberculosis, comparvero in Africa 3.000.000 ya e in seguito infettarono le prime specie del genere Homo e altri primati. E' ipotizzabile che Homo, nelle fuoriuscite "out of Africa", portò con se in giro per il mondo più specie di micobatteri.

M.tuberculosis è solo una delle tante specie del genere Mycobacterium, forse anche una delle più recenti: vi sono stime che indicano come M.ulcerans potrebbe avere 150 milioni di anni; hanno un'origine recente le specie oggi conosciute nel mondo nell'ambito di "Mycobacterium tuberculosis complex", responsabili delle infezioni in epoca preistorica e storica ai danni di H.sapiens, che si fanno risalire fra 35.000 e 15.000 ya da un progenitore africano comune correlato anche con M.canettii. Pertanto prima di quella data le infezioni umane furono provocate da altri tipi di micobatteri, o successivamente estintisi, o evoluti in altre forme, o confluiti in altri rami del complesso albero filogenetico24.

10.000 anni fa nacquero i primi agglomerati urbani: l'affollamento, la scarsa igiene, la difficoltà ad eliminare acque e rifiuti, il contatto con animali vettori comportò la diffusione di malattie infettive quali vaiolo, tubercolosi e lebbra; ma contemporaneamente si verificarono cambiamenti adattativi e la selezione di individui geneticamente resistenti25,26.

In epoca storica, diversi sono gli esempi che possiamo citare, riguardanti la diffusione delle infezioni micobatteriche in seguito allo spostamento e alla migrazione di gruppi o masse di popolazioni:

-          La lebbra, (ri)portata in Europa dai Crociati a partire dal XIII secolo;

-          La tubercolosi, diffusa in Asia, da est a ovest dalle armate mongole di Gengis Khan;

-          Nei secoli dei grandi viaggi e delle scoperte continentali, l'uomo europeo è stato il grande untore di tubercolosi nel mondo: furono i viaggiatori e gli emigranti europei a portare persistentemente il bacillo di Koch in America e in altri paesi oggi fortemente colpiti dalla patologia, che in passato, prima dell'arrivo degli europei, conoscevano la malattia, come l'Africa sub sahariana, solo come evento sporadico;

-          Dal medioevo in poi, tubercolosi e altre malattie infettive a carattere epidemico sono state diffuse in Europa e in Italia anche dai pellegrini che compivano viaggi verso Roma, ad esempio mediante la via Francigena, peraltro percorsa anche da diverse armate di invasori, come i Lanzichenecchi27.

Se il passato è inevitabilmente frammentario, il presente offre un quadro certo che, per quanto riguarda l'infezione da M.tuberculosis, si articola attualmente nella circolazione di 6/7 cladi la cui origine, da un M.tuberculosis comune, sarebbe avvenuta in Africa.

I numeri della tubercolosi oggi nel mondo sono emblematici di una delle maggiori emergenze sanitarie a livello globale28:

-          2 miliardi di persone, infettate dal micobatterio, sono portatrici della forma latente;

-          Il rapporto complessivo tra forma latente e attiva e contagiosa è 9:1. Nel 75% dei casi la malattia è polmonare;

-           Nel 2.011 sono morte per tubercolosi 1.400.000 persone, ma probabilmente i dati provenienti dall'Africa australe e dall'Asia sono sottostimati e la quota annua potrebbe essere vicina ai 2 milioni, uno ogni 20 secondi;

-          I nuovi casi/anno variano tra 8 e 10 milioni e ognuno di questi infetta altri 10-15 individui. Di tutti questi dati, il 90 % degli infettati e il 98 % dei decessi riguarda nazioni  nel sud del mondo, Africa sub-sahariana, Asia del sud-est e America latina;

-          L'incidenza dei casi vecchi e nuovi, per 100.000 abitanti, rimane al di sotto dei 3-4 in Europa e America del nord (ma negli USA gli immigrati dal Messico e dal sud-est asiatico sono colpiti fino a 3 volte in più), 4 in Turchia, 5 in Medio-oriente, Arabia e Iran, 6 in Pakistan e India, 536 in Sudafrica, 1083 nello Swaziland. Per altri paesi i dati non sono nè aggiornati nè attendibili;

-          Il 75% dei decessi colpisce persone fra 15 e 54 anni, eliminando dalla società le fasce lavorative e produttive: è stata valutata, per i prossimi dieci anni, una perdita economica compresa fra 1000 e 3000 miliardi di dollari.

Oggi possiamo seguire la distribuzione e la diffusione nel mondo, sia per studi epidemiologici ma anche per valutazioni cliniche e terapeutiche (in particolare, l’individuazione di ceppi resistenti) dei diversi genotipi: la valutazione dei profili si avvale dei numerosi tests che la biologia molecolare mette a disposizione, ad esempio mediante la cosidetta MIRU-VNTR (12-loci Mycobacterial Interspersed Repetitive Units--Variable Number of Tandem DNA Repeats profiles)29.

Un ultimo dato, fra i più preoccupanti: ogni anno quasi  500.000  pazienti presentano almeno una resistenza farmacologica agli antibiotici di prima scelta e 40.000 a quelli di seconda scelta: fra questi, il rapporto fra nuovi e vecchi casi si sta spostando a favore dei primi.  Solamente il 2% dei casi multiresistenti riceve una terapia corretta e adeguata. I casi "X", resistenti a tutti i farmaci (MDR-tuberculosis), sono ormai stati segnalati in 49 paesi (dato del 2013), soprattutto in Africa, Asia ed est-Europa, ma è sicuramente un dato sottostimato, in quanto dall’ Africa sub-sahariana provengono statistiche incomplete e frammentarie. Il costo di una forma multiresistente può superare di 1400 volte quello di una forma trattabile con i farmaci convenzionali30.

Influenza “spagnola” o pandemia influenzale del 1918-20. Tra i microrganismi patogeni più letali, di cui abbiamo memoria e notizie certe, diffusisi nella nostra epoca, va senz’altro annoverato il virus che causò la cosidetta “influenza spagnola”, tra il 1918 e il 1920. I primi focolai, nonostante il nome, insorsero probabilmente in  nord-America e da lì l’epidemia dilagò in Europa, accompagnando le truppe americane inviate nel vecchio continente e quindi in quasi in tutto il mondo: rimasero apparentemente indenni il sud-America e l’Asia centrale, da cui comunque non si avevano fonti attendibili31.

Soldati e popolazioni che si spostavano in massa a causa della guerra, perlopiù mal-alimentate e defedate, diffusero il virus velocemente, un virus ad altissima contagiosità e letalità: per riportare un esempio, pochi reduci neozelandesi, tornati in patria, lo trasmisero ai nativi Maori che ne furono quasi sterminati32.

La spagnola colpì 1 miliardo di persone in due ondate, tra il 1918 e il 1920, la seconda peggiore della prima, a guerra quasi terminata e fu capace di provocare almeno 40 milioni di vittime, forse più del conflitto stesso; la sua memoria storica è rimasta a lungo nell’immaginario collettivo di quelle generazioni, tant’è che in testi scolastici delle nazioni che appartenevano al vecchio impero austro-ungarico si imputa ad essa e non alle vicende militari la causa della sconfitta. In Italia i contagiati furono 5/6 milioni, le vittime  almeno 400.000, forse molte di più, 600.000 secondo alcune stime, tante quante i caduti in trincea33.

La spagnola, pur uccidendo anche moltissimi soldati italiani, colpì maggiormente l'Austria- Ungheria, con due milioni di morti; i soldati dell'Impero austro-ungarico erano sottoalimentati e defedati, per  il blocco navale imposto da Italia, Francia e Inghilterra (e poi dagli USA), che impediva le importazioni degli imperi centrali34.

Terminata la guerra la spagnola si diffuse maggiormente, in quanto i reduci, tornando a casa e attraversando paesi e nazioni, trasmisero il virus ai civili.

Il maggior numero di decessi si ebbe tra giovani sani di età compresa fra i 15 e i 35 anni: soprattutto in Europa rimasero indenni o ebbero forme più attenuate fasce di età superiori e persino gli anziani, in quanto  parzialmente immunizzate da precedenti epidemie, gravi ma non quanto quella del 1918/20, come quella del 1900/03 o del secolo precedente35.

Oggi conosciamo assai bene le caratteristiche molecolari del virus H1N1 responsabile della “spagnola”, anche grazie alla ricostruzione del suo genoma e di diversi prodotti proteici, dopo averlo recuperato in scheletri ben conservati delle vittime di 100 anni fa. Sappiamo che mutazioni delle emoagglutinine di tipo 1 permettevano al virus di aderire alle cellule dell’epitelio respiratorio più facilmente, di penetrare in esse rapidamente e di provocare, tra l’altro, lesioni che conducevano al danneggiamento dell’epitelio stesso e a copiose emorragie, fra le prime cause di decesso degli infettati. Presto infatti i clinici si accorsero che molti pazienti morivano con i polmoni “infarciti di sangue”. E’ ormai dimostrato che il virus della pandemia del 1918/20 penetrava, si replicava e provocava lesioni emorragiche non solo a carico delle cellule delle alte e medie vie respiratorie, come la maggior parte dei virus influenzali, ma anche delle basse vie e in particolare degli alveoli, attraverso le cui pareti, danneggiate, fuoriusciva sangue che inondava le cavità alveolari. E’ stato individuato e codificato un insieme di tre geni (PA, PB1 e PB2) che, in combinazione con un quarto gene chiave, NP, permetteva al virus di colonizzare le cellule dei polmoni e di codificare per l’RNA polimerasi specifica, necessaria per la riproduzione del virus36.

Molti decessi, tuttavia, furono causati dalle complicanze e sovrainfezioni batteriche, per le quali non vi erano ancora antibiotici a disposizione, cosa che ha permesso di calmierare la gravità delle epidemie influenzali e limitare il numero dei morti dopo il 1940: l’asiatica del 1957-58, il cui virus H2N2 non era meno letale di quello del 1918, la cinese H3N2 del 1968-69 e la variante H1N1 del 1977-78. Anche per questa situazione la biologia molecolare ci viene in soccorso: è stata scoperta una proteina e il gene che la codifica, comune a tutti  i virus dell’influenza A (IAV), denominata PB1-F2.
Il gene è presente in quasi tutti gli IAV, inclusi quelli altamente patogeni dell’influenza aviaria e associati alla pandemia di spagnola. PB1-F2 può aumentare la patogenicità in modelli animali (furetti) dell’infezione e potrebbe avere un ruolo nelle infezioni batteriche secondarie, mediante interferenze tra virus e batteri, i cui meccanismi molecolari rimangono peraltro sconosciuti. L’espressione di PB1-F2 aumenta l’incidenza della polmonite batterica in un modello murino e l’esposizione a forme di polmonite assai più gravi37.

Ogni epidemia/pandemia di virus influenzali è preceduta da passaggi del virus in animali, perlopiù uccelli e suini, in seguito ai quali muta alcune delle proprie caratteristiche molecolari, in particolare delle emoagglutinine e della neuraminidasi.

Per il prossimo futuro una pandemia influenzale devastante costituisce sempre una minaccia realistica: se da una parte vi sono elementi che permetteranno di prevederla e contenerla (misure igienico-sanitarie efficaci, possibilità di studio del “nuovo” virus in tempi stretti e, conseguentemente, allestimento di vaccini, disponibilità di farmaci anti-virali, rete di allarme a livello planetario, misure farmacologiche nei confronti delle complicanze), dall’altra dobbiamo temere una diffusione rapida e totale in un’epoca in cui tutto è globalizzato, viaggi e spostamenti di popolazioni, mezzi di trasporto, nonché la persistenza in numerose aree del mondo di sistemi sanitari inefficienti o deficitari. E’ stato calcolato che un virus aggressivo, con le stesse caratteristiche molecolari dell’ H1N1 della spagnola oggi sarebbe potenzialmente letale per non meno di 60 milioni di persone, se si diffondesse con la stessa rapidità di un secolo fa, nonostante le nostre attuali conoscenze e un miglior armamentario profilattico e terapeutico.

Migrazioni e malattie infettive: oggi e…..domani ? Il fenomeno migratorio, per intensità e problematiche connesse, fattori causali e conseguenze, assolutamente non ultimi i risvolti sanitari, costituisce oggi uno degli eventi più caratterizzanti della nostra epoca e lo sarà ancor più nel prossimo futuro. Nessuna area del mondo ne è esente e questa è una delle prime realtà da accettare e affrontare, al di là di retoriche, mistificazioni, falsità e rifiuto di quella che possiamo definire come una delle massime emergenze planetarie, al pari della fame, dei conflitti, dei cambiamenti climatici, delle disuguaglianze socio-economiche,  peraltro strettamente concatenate fra loro e con le migrazioni, ognuno di questi causa ed effetto, ad un tempo, delle altre.

Secondo l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni, 200 milioni di persone ogni anno  lasciano il paese in cui si trovano per trasferirsi in un altro6,38,39.

Vi sono quattro grandi corridoi migratori planetari:

- il 45 % dei migranti (95 milioni) va da sud a nord;
- il 35 % (75 milioni) da sud a sud;
- il 17 % (37 milioni) da nord a nord;
- il 3 % (7 milioni) da nord a sud.

Nel fenomeno migratorio i paesi ricchi (“il nord del mondo”) non sono l’unica meta, come comunemente si crede o si vuol far credere da certi mezzi di (dis)informazione, che anzi i paesi poveri “del sud del mondo” ne sono coinvolti tanto quanto quelli settentrionali e con mezzi di accoglienza assai precari. Sistemi sanitari inadeguati per la popolazione locale, oggi sono ulteriormente stressati per emergenze che coinvolgono dapprima i confini e da lì l’intero territorio delle nazioni coinvolte: ricordiamo la situazione attuale dei paesi confinanti con la Siria e l’ Iraq, approdo di milioni di rifugiati in fuga dalla guerra civile in precari campi profughi.

Quella siriana è una vera catastrofe sanitaria, dalle ripercussioni non prevedibili; il paese, fino a dieci anni fa con un’accettabile organizzazione sanitaria che garantiva una copertura vaccinale ottimale, è piombato con la guerra civile nell’anarchia assistenziale, molte vaccinazioni obbligatorie sono state sospese, tra cui quella antipoliomielite. Sono stati segnalati, dopo molti anni, focolai di poliomielite in Siria e l'elevato numero di profughi richiama l’allarme su un’infezione che sembrava ormai obsoleta e fa temere che il virus possa tornare a diffondersi anche altrove.

Nella figura n.1 sono evidenziate le principali rotte migratorie, oggi, nel mondo. L’ Italia non appare in nessuna statistica fra i primi dieci paesi coinvolti, per numero, dal fenomeno: è un dato che deve far riflettere quanti si allarmano per l’imponenza dei migranti che arrivano nel nostro paese, senz’altro consistente, ma di gran lunga inferiore rispetto alle rotte più battute che rimangono quelle fra sud e nord-America, intra-Africana e intra-Asiatica e dall’Africa verso l’oriente asiatico.

Un altro luogo comune da sfatare è che vi siano nel mondo zone immuni da infezioni autoctone, che la maggior parte abbia origine nelle aree tropicali e sub-tropicali e comunque nel sud del mondo (inteso sia in senso geografico che economico-sociale): è vero il contrario e possiamo portare più di un esempio, come il caso della malattia di Lyme che origina in nord-America e anche in Europa settentrionale. Nessuna area o macro-area del mondo, pertanto, è esente dall’ “esportare” infezioni altrove, con o senza cospicui flussi migratori40.

L’OMS ha stilato due liste di malattie infettive, che potrebbero rappresentare nel prossimo futuro nuove emergenze sanitarie41.

PRIMO GRUPPO (infezioni ad altissima pericolosità): Ebola, febbre emorragica del Congo,  Marburg-virus,  Nipah-virus, febbre di Lassa, febbre della Rift Valley, MERS e SARS. A renderle un’emergenza non è solo la mortalità, ma anche la scarsa attenzione mediatica e la pochezza di fondi per la ricerca.

SECONDO GRUPPO (malattie considerate meno pericolose, ma comunque da monitorare costantemente con attenzione): Chikungunya, Febbre alta con sindrome trombocitopenica (SFTS), virus Zika. Per Chikungunya e Zika, che recentemente hanno suscitato notevole allarme, l’ OMS ne ha richiamato l’attenzione, peraltro non ascoltata, già da diversi anni.

La storia delle malattie infettive insegna che fino a  quando un agente infettante non è eradicato ovunque, in tutto il mondo, le mutate condizioni sociali e ambientali, gli scambi commerciali e di persone, le migrazioni, l'evoluzione e le mutazioni del microrganismo stesso e nuove interazioni con altri agenti possono provocare la ripresa e la rinascita della malattia, sia nei paesi dove era lentamente ma costantemente diminuita d'incidenza, sia là dove non s'era mai arrestata e non era stata bloccata del tutto, riaumentandone la diffusione.

Al di là delle implicazioni etiche, chiudere le frontiere, bloccare l’immigrazione o impedire i viaggi e il trasporto aereo dalle regioni infettate appare irresponsabile da un punto di vista sanitario, illogico, irrazionale e, diremmo noi, sciocco sul piano pratico. Se è impossibile bloccare una fonte infettiva all’origine, è più facile e razionale fermare eventuali episodi di importazione (come già avvento in USA e Spagna, Ebola insegna) là dove le infrastrutture sanitarie sono affidabili, gli ospedali igienici e il personale ben equipaggiato e addestrato, di quanto sarebbe invece sperare di contenere l’epidemia chiudendo le frontiere e lasciando che questa si estenda a macchia d’olio localmente.

L’OMS richiama, doverosamente, l’attenzione sulla necessità di ottemperare a tutte le misure preventive che sia possibile mettere in campo, sia nei confronti delle popolazioni stanziali che dei migranti: la questione delle vaccinazioni si è riproposta di recente in negativo. Due sono i casi limite che vengono sottolineati; il primo è quello dei paesi sconvolti da anni da guerre civili e internazionali, come la Siria, l’ Iraq, l’ Afghanistan e la Nigeria, ove la copertura vaccinale è ridotta a livelli bassissimi e si assiste, come già accennato, al ritorno di infezioni che sembravano ormai un ricordo: ad esempio, la poliomielite42.

Il secondo caso riguarda, purtroppo l’Italia, ma del resto l’allarme è stato dato anche dai nostri organi sanitari; i dati del ministero della salute indicano una copertura vaccinale in calo da alcuni anni, ormai al limite della soglia di sicurezza e al di sotto degli obiettivi minimi previsti per diverse malattie infettive: le vaccinazioni anti-poliomielite, tetano, difterite ed epatite B sono scese < 95%, quelle contro morbillo, parotite e rosolia intorno al 90-86%. Disinformazione e ignoranza, campagne di stampa e servizi televisivi contro le vaccinazioni, amplificazione di articoli (pseudo)scientifici poi rivelatisi falsi clamorosi ma mai smentiti ufficialmente, come quelli riguardanti i rapporti tra vaccinazione anti-poliomielite ed autismo, hanno reso l’ Italia un caso unico nel mondo occidentale43.

Un’ultima osservazione riguarda i rapporti tra migrazioni, malattie infettive e disuguaglianze socio-economiche in diverse aree del mondo, soprattutto là dove persistono endemicamente, per usare un termine sanitario, nuclei di povertà che in taluni casi sono recentemente incrementati per estensione e numero di popoli coinvolti, a seguito della crisi economica globale, di ulteriori conflitti, delle estremizzazioni climatiche, di nuove emergenze sanitarie. In una mappa delle disuguaglianze evidenziamo due macro-aree in cui il fenomeno è assai marcato, paesi ove convivono pochi superbenestanti e una maggioranza assoluta di poveri e poverissimi: sono il centro-sud-America e l’ Africa sub-equatoriale; a nord troviamo altre due macroaree in cui le disuguaglianze sono minime, dal momento che la maggioranza della popolazione, tranne poche eccezioni, ha un’ottima qualità della vita: si tratta del nord-America e dell’ Europa centro-settentrionale. Ovviamente i flussi migratori sono consistentemente diretti dalle prime due aree alle seconde. Ma oggi assistiamo ad un nuovo fenomeno: vi è una terza macro-area geografica, che include il sud-est dell’ Europa e vaste zone dell’ Asia, caratterizzate anch’esse da minime disuguaglianze, ma, potremmo dire, verso il basso (al contrario delle zone nord-Americana e nord-Europea ove il tenore di vita è alto), poiché la maggioranza della popolazione è in condizioni socio-economiche (ed anche sanitarie) appena sufficienti o scadenti. Da quest’ultime aree (oltre le prime due segnalate come maggiormente disegualitarie), verso quelle di maggior benessere, da alcuni anni sono diretti flussi migratori che potremmo definire “più selezionati”, con specificità diverse e tutte da esaminare: si tratta di migranti con casi di tubercolosi farmaco-resistente, di epatiti B e C interferon-resistente e sifilide penicillino-resitente44. E’ un fenomeno nuovo, forse quantitativamente non eclatante come quelli prima descritti, ma caratterizzato da specificità sanitarie che meritano nuove indagini e attenzioni, difficili da gestire, economicamente impegnative, segnalate da più centri di raccolta-dati sui migranti. E’ anche vero, purtroppo, che dalle aree di maggior disuguaglianza socio-economica e di avvio delle rotte tradizionali di migrazione, molti dati sanitari sono ancor oggi insufficienti, a cominciare proprio dai fenomeni della farmaco-resistenza la cui rilevazione e gestione, come detto, comporta l’impiego di non trascurabili risorse finanziarie.

Concludiamo con alcune puntualizzazioni tratte dalla pubblicazione di K.Hemminki, esperto dei problemi migratori e sanitari dell’ONU, il cui titolo è già una sintesi di tutta la problematica: “Immigrant health, our health”45. I punti più salienti del lavoro rimarcano quanto segue:

-          I movimenti di popolazioni, oggi e ancor più, nel futuro, sono ineluttabili e con questo fenomeno dobbiamo imparare a convivere e ad affrontare tutte le problematiche connesse;

-          I migranti, come singole individualità o gruppi di popolazioni, sono persone fragili e vulnerabili;

-          Le migrazioni cambiano e cambieranno ancor più in futuro il quadro delle patologie a livello mondiale, soprattutto delle malattie infettive;

-          Il problema migratorio va inquadrato e non può essere disgiunto da quelli economici, politici, militari e sociali in senso lato;

-          L’ Europa sarà coinvolta sempre più, nella sua interezza, dal fenomeno e dovrebbe prepararsi ad affrontarlo unitariamente;

-          Un calcolo approssimativo e per difetto indica che i paesi con benessere socio-economico e sistema sanitario efficiente (“il nord del mondo”) dovrebbero destinare almeno il 2.5 % del proprio PIL a risollevare o edificare un’organizzazione sanitaria valida e funzionante nei paesi meno fortunati.

In un’epoca in cui si parla tanto di globalizzazione, siamo lontani da una “global health” effettiva, che vediamo inapplicata oggi e ancora un’utopia per il domani: anzi, le migrazioni mettono a nudo i limiti di questo traguardo, marcano e approfondiscono differenze e disuguaglianze e pertanto corriamo il rischio, se i punti dianzi elencati verranno ulteriormente disattesi, di indirizzarci verso una “partial”, se non una “no world global health”.


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