Prof. Luigi Valenzano

Già Primario Dermatologo Istituto Dermatologico San Gallicano, Roma

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2021-2022

Vol. 66, n° 2, Aprile - Giugno 2022

Conferenza: Il Morbo di Hansen nella storia della Dermatovenereologia

22 febbraio 2022

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Il Morbo di Hansen nella storia della Dermatovenereologia

L. Valenzano

È noto a tutti che il nome attuale di Morbo di Hansen è stato introdotto per sostituire quello di lebbra, termine che per molti secoli è stato sinonimo di una patologia perenne fonte di stigma, gravità, incurabilità e disperazione.

In effetti nel 1868 il grande Hansen Gerhard Henrik Armauer (1841-1912), Direttore del Lebbrosario di Bergen in Norvegia, ha scoperto l’agente eziologico della lebbra, il Mycobacterium Leprae, che perciò è anche denominato Bacillo di Hansen.

Per ben valutare le tappe evolutive del Morbo di Hansen nella storia della Dermatovenereologia, è bene ricordare, sia pur per sommi capi, qualche dato attuale. Oggi sappiamo che si tratta di una malattia infettiva e cronica che per lo più colpisce soggetti predisposti e che è causata dal Mycobacterium Leprae, localizzandosi preferenzialmente nelle strutture nervose periferiche e nella cute. Il periodo di incubazione può durare anche anni e di regola il germe penetra, con diverse modalità e gradi e con possibili esiti invalidanti, attraverso soluzioni di continuità della cute e delle mucose, ma anche attraverso le vie respiratorie. Il serbatoio principale dell'infezione è costituito da un malato lepromatoso non curato (che in tal caso può disperdere nell'atmosfera più di 10 milioni di micobatteri al giorno) soprattutto mediante le secrezioni nasali o più raramente attraverso l'allattamento. L’agente eziologico predilige il clima caldo umido e le scadenti condizioni di vita, tipiche dei paesi sottosviluppati tropicali e subtropicali, e la sua diffusione è particolarmente favorita dalla sempre più frequente facilità di spostamento. Ciò spiega perché nel nostro Paese si osservano solo “casi da importazione”, sia nei migranti sia negli Italiani che hanno soggiornato in Paesi ove la lebbra è endemica. Per fortuna il contatto con il micobatterio causa la malattia piuttosto raramente e per lo più solo in soggetti con basse difese immunitarie, nei quali il micobatterio si localizza preferenzialmente nelle vie aeree e nei distretti a più bassa temperatura corporea e ricchi di ossigeno. Infatti queste zone favorevoli permettono la replicazione del germe e la diffusione per via ematica soprattutto nei linfonodi, fegato e milza. In tal caso si tratta di forme multibacillari, dette lepromatose.

Se invece la risposta immunitaria è abbastanza valida, il micobatterio resta confinato in alcuni distretti e tende a diffondersi nel sistema nervoso periferico della cute provocando le cosiddette forme tuberculoidi paucibacillari.

Fra queste due forme possono verificarsi una serie di situazioni intermedie di transizione, diversamente definite e opportunamente trattate.

Sul piano storico, questa malattia ha un processo remoto, oscuro e di difficile ricostruzione. Secondo l’immunologo australiano Frank Macfarlane Burnet: «alcuni studiosi la ricollegano addirittura alla storia della specie umana. Di fatto è difficile una precisa ricostruzione temporale dello sviluppo di questa malattia in quanto sono giunti a noi pochi documenti».

Certamente la lebbra nasce nella notte dei tempi e, come sostiene Andrea Carlino, Professore di Storia della Medicina dell’Università di Ginevra: «come altre malattie epidemiche, quali la peste e la sifilide, la lebbra ha avuto un forte impatto sulla realtà sociale e demografica e, al tempo stesso, ha generato un immaginario che, forse più della realtà fattuale dell'epidemia e delle sue conseguenze, ha influenzato profondamente sia i comportamenti sociali sia quelli sanitari ad essa relativi»1.

E ancora il Direttore della Clinica Dermatologica dell’Università Federico II di Napoli, Pietro Santoianni precisa che: «la storia della lebbra come malattia è inscindibile dalla vicenda della lebbra come fatto culturale e sociale. Poche malattie al pari di questa, infatti, sono state oggetto di tanti fraintendimenti, credenze e superstizioni, con conseguenze a volte spettacolari e disastrose sul modo di comprenderla, prevenirla e curarla»2.

Quindi, per poterla comprendere bene nella sua interezza, bisogna partire dalla Paleopatologia che ci ha trasmesso significative testimonianze della malattia fin dalle più remote epoche preistoriche (paleolitica, neolitica e dei metalli).

Per quanto riguarda l’evoluzione dell’incidenza della lebbra in Europa dall'inizio della nostra era, possiamo avvalerci dell’interessante lavoro di Gino Fornaciari, fondatore della Divisione di Paleopatologia dell’Ateneo pisano (Fig. 1).


Fig. 1. Evoluzione dell’incidenza della lebbra in Europa (G. Fornaciari3).

 

Invece il declino della lebbra, secondo lo storico di Scienza della Medicina Mirko D. Grmek, oltre alle trasformazioni religiose e socio-economiche del XV secolo, potrebbe essere dovuto all’ascesa della tubercolosi e quindi forse all’immunizzazione crociata fra queste due micobatteriosi.

Secondo altri Autori le concause potrebbero essere il ruolo dei medici nei processi, l’isolamento e la soppressione dei pazienti e il sopraggiungere della «peste nera».

Già il luogo e la data di origine sono ancora oggi oggetto di ricerche e discussioni, ipotizzando, secondo la maggioranza degli scienziati, che la malattia possa essere venuta dall’India o dall’Africa.

A supporto della teoria indiana ci sono diversi elementi: il ritrovamento in India di uno scheletro di un uomo di mezza età risalente al 2000 a.C., che sarebbe il più remoto dei resti umani con segni indubbi di lebbra; la presenza nei Veda indiani (XV sec. a.C.) di possibili istruzioni per la sua prevenzione; ed ancora in India la scoperta della prima descrizione completa di una malattia che sembra corrispondere alla lebbra (VII sec. a. C.); la molto probabile importazione del contagio dall’India in Europa da parte delle milizie di Alessandro Magno (IV sec. a. C.).

A favore dell’origine africana, abbiamo già nella Bibbia, in particolare nel Levitico (XIII sec. a.C.), diversi importanti riferimenti ad una patologia assimilabile alla lebbra. Molto probabilmente si tratta di un evento morboso assai diverso dall’attuale e comunque sempre confuso nei secoli successivi con oltre 72 dermopatie (psoriasi, scabbia, sifilide, tubercolosi, peste, etc.), costanti motivi di disperazione e segregazione.

A tal proposito si legge: «Per tutto il tempo che è lebbroso e impuro, starà solo, fuori dagli accampamenti» (13,46) e ancora Dio spiega a Mosè e Aronne le manifestazioni della lebbra e il modo sacerdotale di giudicarla: «Ordina ai figli di Israele che mandino via dagli accampamenti tutti i lebbrosi…affinché non lo contamini mentre io abiterò con voi» (5,2).

Inoltre vi sono molte altre testimonianze degne di nota e localizzate in diverse parti del mondo. Nel II sec. a.C. la Cina ci ha trasmesso il suo primo testo che descrive la lebbra (Feng Zhen Shi); Tito Lucrezio Caro, poeta e filosofo romano, nel I sec. a. C.definisce l’Egitto «culla dell’elefantiasi»; Aulo Cornelio Celso (25 a.C.- 45 d.C.) e Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) descrivono alcuni sintomi della lebbra; Pompeo la importa dalla Grecia e dall’Asia e poi il contagio dilaga in tutta l’Europa e i lebbrosi vengono sempre più stigmatizzati e puniti.

A tal proposito i tre fondamenti dell’ostracismo nei confronti dei lebbrosi, fenomeno particolarmente esteso fino al XIX sec., sono riconducibili all’impietoso giudizio sacerdotale, alla malattia interpretata come punizione divina per colpe compiute e all’indispensabile esclusione dei soggetti infettati dalla vita in comunità. Infatti, a partire dal V-VI sec. d.C. le Autorità religiose stabiliscono l'incurabilità e la contagiosità dei malati e quindi la loro reclusione coatta nei lebbrosari.

Emblematico è l’Editto di Rotari che, ancora nel 603 d.C., stabilisce che «Chi è affetto da lebbra, riconosciuta dai giudici e dal popolo, viene espulso dalla città». Tale segregazione stabilisce in pratica la morte civile del lebbroso e, per scongiurare la lebbra ed evitare qualsiasi sconvolgimento sociale, vengono perciò istituiti un rito e uno statuto che prevedono: la comparizione davanti a un tribunale, la notifica della morte civile del malato, l’adozione di nacchere e campanelli per annunciarsi e ovviamente la reclusione nei lebbrosari.

Il contagio si diffonde poi in tutte le classi sociali, non risparmiando neppure il celebre personaggio Baldovino IV d’Angiò, re di Gerusalemme dal 1174 al 1185, e perciò passato alla storia come «il re lebbroso».

Nel tentativo di contrastare il più possibile l’espansione della malattia, vengono emanati specifici regolamenti per i lebbrosi. Nel 538 il Concilio di Lione detta severe disposizioni per limitare i contatti nei lebbrosari; nel 1179 il III Concilio Lateranense stabilisce che i lebbrosi siano segregati dalla società e abbiano chiese e cimiteri separati; nel 1215 il IV Concilio Lateranense specifica che i lebbrosi debbano essere trattati come ebrei con abiti speciali, croce gialla cucita sui vestiti, campana al collo, bastone indicatore etc.

Sul piano clinico e scientifico, il grande francese Guy de Chauliac (1300-1368), maestro di chirurgia medievale, descrive con brillante precisione i sei segni inequivocabili della lebbra: arrotondamento degli occhi, ispessimento con tuberosità di orecchie, naso e sopracciglia; perdita dei capelli; narici ristrette, ma allargate esternamente; labbra deformate; voce rauca e nasale; fetore dell’alito e della persona e uno sguardo fisso e spento. Sintesi efficace di un quadro clinico che per molto tempo resterà come punto di riferimento per tutti coloro che si occuperanno di questa malattia.

Naturalmente quando si sospetta una responsabilità, si apre la caccia ai presunti mandanti o esecutori, individuati a seconda dei casi nel sultano musulmano di Babilonia, nel re di Granada o negli “immancabili” ebrei. Come pure vengono ricercati e perseguitati i malati ritenuti colpevoli della diffusione del contagio. In questo clima nel 1321 in Francia il Re Filippo V, detto «il lungo», emana il nefasto Editto di Poitiers, nel quale si sancisce addirittura l’opportunità di uno «sterminio dei lebbrosi per lesa maestà».

Nel frattempo però si registra fortunatamente una lenta regressione nella diffusione della lebbra e quindi i lebbrosari vengono man mano trasformati in lazzaretti dedicati anche alla cura di vaiolo, tifo petecchiale, peste bubbonica, tubercolosi, «fuoco sacro» etc.

Bisogna tener presente che tra l’XI e il XIII sec. in Europa sono attivi ben 19.000 lebbrosari e lazzaretti e anche in Italia sono molti i luoghi che ospitano questi nosocomi e perciò vengono denominati «città maledette». Tali sono Milano, Genova, Venezia, Ancona, Roma, Napoli, Verona, Parma, Livorno, Cagliari, Trapani e molte altre più piccole città.

Nel XII-XIII sec., verosimilmente in rapporto alle Crociate, si riscontra il picco più alto dei casi di lebbra. Fra i tanti studiosi, Ruggero Salernitano, Medico della Scuola Salernitana, è convinto che la malattia sia causata dagli umori corrotti (ex corruptis humoribus) e individua gli umori responsabili di quattro diverse forme di lebbra: alopecia, elephantia, leonina e theriasis (pruriginosa).

Nel frattempo, anche nel buio del Medioevo, si accende la luce della Fede. Nel senso che il lebbroso ancora terrorizza e provoca la fuga degli astanti, in quanto contagioso e orribile a vedersi, ma è anche oggetto di un atteggiamento ambiguo per cui respinge e attira nello stesso tempo l’attenzione e la pietà dei religiosi.

Perciò, seppur ancora ritenuto vittima della collera divina, il lebbroso è anche posto sotto la protezione dei cieli: «Sis mortuus mundo, vivens iterum Deo».

Questa straordinaria rivoluzione si completa nel Rinascimento con un totale cambio di paradigma, per cui Cristo rassicura il lebbroso che, essendo Egli stesso un «quasi leprosus», condivide le sue sofferenze e gli concede la salvezza del suo sangue.

Si giunge così all’Era Moderna in cui avviene la scoperta del Nuovo Mondo (1492), ma purtroppo anche del nuovo morbo, ossia la Sifilide e altre malattie veneree, subito etichettate «la nuova lebbra». Da quel momento si complica ulteriormente l’individuazione diagnostica dei casi di lebbra, sempre più misconosciuti e fonte di confusione ancora per molto tempo.

La sempre più ampia diffusione di molte altre patologie induce il Re Enrico IV di Francia a fondare nel 1611 l’Hôpital Saint-Louis di Parigi, come pure Papa Benedetto XIII a edificare nel 1725 l’Istituto di Santa Maria e San Gallicano di Roma. Come si evince dalla sua Bolla di fondazione, l’«ospedalone trans-Tiberim» è particolarmente dedicato all’accoglienza e alla cura di pruriginosi, scabbiosi, tignosi, lebbrosi, pestilenti, dermopatici contagiosi e febbricitanti etc. in una confusione di cause imprecisate, di sintomi ignorati e di terapie ancor più discutibili.

Con la Rivoluzione Francese del 1789 inizia l’Era Contemporanea, particolarmente dedita alla ricerca delle cause e degli effetti delle patologie. Si realizzano finalmente le più importanti scoperte sulla lebbra che porteranno alla sua completa definizione, e poi alla realizzazione e applicazione di più efficaci terapie.

Nel 1847 Danielssen (1815-1894) e Boeck (1808-1875) scoprono per primi la lebbra tubercoloide. Rafael Lucio (1819-1886), in collaborazione con Ignacio Alvarado, descrivono la lebbra lepromatosa nel loro Opúsculo sobre el mal de San Lázaro ó elefanciasis de los griegos. Il grande Rudolf Virchow (1821-1902) nel 1860 approfondisce l’istopatologia della lebbra lepromatosa. Ma sarà esclusivo merito di Gerhard Armauer Hansen nel 1868 la scoperta dell’agente eziologico Mycobacterium Leprae, da allora denominato appunto Bacillo di Hansen. Questo grande Clinico aveva già descritto per primo nel 1848 la scabbia squamo-crostosa o norvegese, particolarmente frequente nei lebbrosi per varie motivazioni (alterazione della sensibilità con deficit del prurito, immunodeficienza, promisquità, cattive condizioni igieniche etc.).

E finalmente nel 1841, anche per la psoriasi, avviene la separazione definitiva dalla lebbra ad opera di Ferdinand R. Von Hebra (1806-1880).

Nel 1919 il giapponese Kensuke Mitsuda (1876-1964), nel suo The significance of skin tests using leprosy nodule extracts, descrive l’innovativa intradermoreazione alla lepromina, ancora oggi il solo esame immunologico che serve a classificare la forma e non a definire la diagnosi.

Anche per quanto riguarda la storia della terapia, il processo è stato lungo e complesso e ha coinvolto i più diversi personaggi. Nell’antico testo sanscrito Sushruta Samhita del VI sec. a.C. vengono menzionati gli effetti terapeutici dei semi di una pianta che potrebbe essere l’Hydnocarpus W., come poi sarà confermato a metà Ottocento; Plinio il Vecchio (I sec. d.C.) e Areteo di Cappadocia (II sec. d.C.) consigliano l’impiego del veleno di serpente; Paracelso (1493-1541) suggerisce invece il sangue d’agnello; Demetrio Canevari (1559-1625) sottolinea gli effetti benefici del decotto di Legno Sacro o Guaiacum Officinalis; nel 1854 Frederic John Mouat conferma quanto ipotizzato nel VI sec. a.C. e raccomanda l’assunzione per via orale e topica dell’olio di Chalmoogra, appunto estratto dai semi di Hydnocarpus W., che poi sarà impiegato anche per via iniettiva da A.A. Ball e A. L. Dean nel 1916; nel 1942-43 Faget e collaboratori scoprono l’efficacia terapeutica dei sulfoni batteriostatici. Con il 1959 inizia la cosiddetta «era antibiotica» quando, nei Laboratori Lepetit di Milano, Piero Sensi (1920-2013) e Maria Teresa Timbal (1925-1969) scoprono le Rifampicine, che nel 1971 vengono introdotte nella terapia da Robert R. Jacobson; dal 1981 l’OMS suggerisce l’impiego della Multy Drug Therapy a base di Rifampicina, Dapsone, Clofazimina etc., che si è dimostrata molto efficace e risolutiva.

Data la complessità e la varietà del Morbo di Hansen, oltre alla terapia, si è reso necessario un approccio multidisciplinare che, a seconda dei casi, può coinvolgere medici, chirurghi, ortopedici, fisioterapisti, senza trascurare l’importanza della prevenzione e della profilassi.

Con questo spirito è evoluto anche il sistema assistenziale, per cui quello che una volta era il lebbrosario, oggi è denominato Dermatologia Tropicale o ancor meglio Dermatologia Sociale.

Attualmente la lebbra è endemica in molti Paesi tropicali e sub tropicali e i casi registrati nel mondo nel 2021 ammontano ancora a oltre 200.000, di cui più di 100.000 in India e circa 30.000 in Brasile. In pratica il Morbo di Hansen colpisce una persona ogni tre minuti, una su dieci è un bambino e restano disabili circa 3 milioni di persone (Report WER 2021). La sola Chiesa Cattolica gestisce nel mondo 600 Lebbrosari in Africa, USA, Asia, Europa e Oceania e l’OMS garantisce il trattamento gratuito a tutti i pazienti affetti da lebbra.

A questo proposito la Dermatologa napoletana Patrizia Forgione, particolarmente dedita alla cura dei migranti, riferisce che: «la lebbra è inserita dall'OMS tra le 14 malattie tropicali trascurate ("neglected tropical disease"), in Italia il morbo di Hansen è inserito tra le malattie rare. La malattia era presente in Italia fino agli anni '70 dello scorso secolo come la malattia autoctona raccolta in focolai in Liguria, Puglie, Calabria, Sicilia e Sardegna, oggi si osserva come casi d'importazione, ma può evidenziarsi in ogni parte del territorio nazionale»4.

L’impatto di una così importante problematica ha portato all’istituzione della Giornata Mondiale dei Malati di Lebbra, che si svolge ogni anno l’ultima domenica di gennaio, dal 1954 per volere del suo fondatore R. Follereau. Quest’anno il titolo della 69° Giornata è stato “Le malattie dimenticate nel 2022 esistono ancora. Aiutaci a cancellarle per sempre”.

Per concludere questa carrellata storico-clinica sul Morbo di Hansen, possiamo sostenere che questa patologia può essere considerata come metafora delle grandi problematiche attuali e della xenofobia: nuove epidemie HIV, Ebola, Zika, COVID-19, migrazioni incontrollate, guerre, sconvolgimenti socio-politici, comportamenti individuali e collettivi inimmaginabili e imprevedibili etc.

Per cui, non a caso, Papa Francesco si scaglia sempre contro la «costante ed irrisolta esclusione del diverso».


BIBLIOGRAFIA

  1. Carlino A. La lebbra nella storia. In: Lebbra. Universo del Corpo. Treccani. 2000. www.treccani.it.
  2. Santoianni P.  Aspetti medici. In: Lebbra. Universo del Corpo. Treccani. 2000. www.treccani.it.
  3. Fornaciari G. La Lebbra: Paleopatologia e storia della cura e dell’assistenza. Università di Pisa, Divisione di Paleopatologia, Storia della Medicina e Bioetica. Convegno di Studi organizzato da S.M.O.M. Delegazione di Pisa. Pisa, 20-22 maggio 2010.
  4. Forgione P. Malattia di Hansen. http://www.aslnapoli1centro.it/malattia-di-hansen.