Dott. Vito Piazza

U.O.S. Scompenso, U.O.C. Cardiologia, Az. Osp. San Camillo-Forlanini, Roma

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2021-2022

Vol. 66, n° 2, Aprile - Giugno 2022

ECM: Cuore Polmone 2021-2022 - V Edizione

08 febbraio 2022

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Lo scompenso cardiaco avanzato. La clinica e la terapia

V. Piazza

Nel 2018 la Società Europea di Cardiologia1 ha definito le condizioni cliniche che devono essere presenti, nonostante terapia medica ottimizzata, per definire “avanzato” lo scompenso cardiaco (SCAv):

  1. sintomatologia severa e persistente (classe funzionale NYHA III-IV);
  2. severa disfunzione ventricolare sinistra (FE < 30%) o destra isolata o aumento dei peptidi natriuretici o disfunzione diastolica e incremento dei peptidi natriuretici (secondo la definizione di scompenso cardiaco con FE conservata);
  3. più di un ricovero negli ultimi 12 mesi per episodi di congestione o bassa portata cardiaca;
  4. severa riduzione della tolleranza allo sforzo (6MWD < 300 m, pVO2 < 12-14 ml/Kg/min).

La disfunzione d’organo o l’ipertensione polmonare secondaria possono essere presenti, ma non sono necessari, per la definizione che racchiude i termini “refrattario” ed “end-stage” usati in precedenza ed indica la necessità di valutare terapie avanzate. L’American College of Cardiology/American Heart Association e l’American Heart Failure Association2 propongono definizioni dello SCAv che in parte si sovrappongono ed in parte si diversificano rendendo difficile una comune stratificazione del singolo paziente ed auspicabile una armonizzazione dei criteri adottati. L’argomento è stato oggetto di recente revisione3 della terminologia dello scompenso cardiaco (SC) che sconsiglia l’uso di “SC acuto” o “di nuova insorgenza” e di “SC stabile” e propone le seguenti definizioni:

  1. “insufficienza cardiaca scompensata” per i pazienti che richiedono il ricovero per un evento precipitante, per una causa di nuova insorgenza, per deterioramento di SC noto;
  2. “SC persistente” per i pazienti che con terapia ottimale non migliorano né i sintomi né le anomalie cardiache strutturali e funzionali;
  3. “SC in remissione” per i pazienti che in terapia ottimale presentano reversibilità dei sintomi e delle anomalie strutturali e funzionali;
  4. “SC guarito” per i pazienti che, dopo completa risoluzione degli eventi causali, non presentano segni né sintomi né anomalie morfologiche e funzionali, anche dopo la eventuale sospensione della terapia.

Lo stesso lavoro propone inoltre una nuova classificazione dello SC sulla base della FE:

  1. HFrEF se ≤40%;
  2. HFmEF: FE tra 41 e 49%;
  3. HFpEF: FE ≥ 50%;
  4. HFimEF: SC con FE ≤ 40% e successivo miglioramento ≥ 10 e FE > 40%.

La stima della prevalenza dello scompenso cardiaco avanzato risente della variabilità delle definizioni usate e della diversità delle popolazioni studiate oscillando tra lo 0,2% dei pazienti ambulatoriali del registro di Olmsted, all’1,36 % dei pazienti di 60-69 anni dello Studio di Framingham, al 5% dei pazienti ricoverati nel Registro ADHERE, all’1-10% nel documento sullo SCAv della Società Europea di Cardiologia1. Poiché la popolazione Italiana è pari a circa 60 milioni di persone (dati ISTAT), la prevalenza di SC in tutte le fasce d’età è pari a 1,7% (dati del Ministero della Salute) e circa la metà dei pazienti è affetta da HFrEF, si può stimare che circa un milione di pazienti siano affetti da SC, 500.000 da HFrEF e 25-50.000 da SCAv.


Fisiopatologia

Dal punto di vista fisiopatologico e clinico i segni dominanti dello SCAv sono la persistenza dei segni e sintomi di congestione e di bassa portata nonostante terapia ottimale. La misura emodinamica della congestione si basa sul rilievo di valori superiori a 7 e 18 mmHg rispettivamente della pressione atriale destra e della pressione di incuneamento capillare4. Non sempre la congestione è dovuta a ritenzione di sale e liquidi, ma può essere provocata da redistribuzione di sangue dal serbatoio venoso periferico verso il centro, come si osserva più spesso nell’ edema polmonare con FE meno ridotta. L’aumento della pressione atriale destra è un elemento centrale nella fisiopatologia dello SC. Il rene è particolarmente suscettibile alla congestione venosa perché la presenza della capsula fibrosa inestensibile fa sì che l’incremento della pressione venosa al suo interno si traduca immediatamente nell’aumento della pressione interstiziale. Ciò determina:

  1. la riduzione del gradiente di perfusione del glomerulo renale e della conseguente filtrazione glomerulare5;
  2. l’attivazione dei tensocettori presenti nel parenchima renale con vasocostrizione indotta dal sistema simpatico e dal sistema renina-angiotensina6;
  3. la riduzione del lieve gradiente pressorio vigente all’interno del tubulo renale che per gradi estremi di aumento della pressione venosa può essere addirittura annullato;
  4. l’aumento del flusso linfatico renale che rimuove le proteine interstiziali, riduce la pressione oncotica interstiziale e favorisce l’ulteriore riassorbimento di sodio7.

L’aumento della pressione atriale destra e l’espansione plasmatica aumentano la pressione capillare renale e riducono la compliance dell’interstizio con conseguente modificazione del flusso venoso renale che da continuo diviene pulsatile, evento dimostrabile prima ancora che compaiano le alterazioni dell’emodinamica locale e sistemica8. Molto meno rilevante per la funzione renale è il valore della portata cardiaca che grazie ai meccanismi di auto-regolazione locale influisce in minor misura sulla funzione renale, almeno fino a gradi estremi di ipoperfusione9. Inoltre l’aumento della pressione atriale destra si ripercuote sulla pressione endo-addominale che può risultare aumentata nel 60% dei pazienti con SCAv, anche in assenza di ascite e aumenta ulteriormente la pressione interstiziale renale con ulteriore riduzione della pressione di perfusione e attivazione neuro-umorale locale. Anche piccoli aumenti della pressione endo-addominale, nell’ordine di 8-12 mmHg (valore normale 5-7 mmHg), possono causare insufficienza renale e vengono facilmente misurati per mezzo del monitoraggio trans-vescicale10. La struttura e le caratteristiche della circolazione epatica espongono in modo particolare il fegato al rischio di ipoperfusione nello SC per aumento della pressione atriale destra e riduzione della portata. Infatti circa i ¾ della perfusione dell’organo provengono dal circolo portale e ¼ dall’arteria epatica e i due flussi confluiscono all’ingresso dei sinusoidi. Le cellule della parte centrale del lobulo (zona 3) ricevono sangue con tensione di ossigeno inferiore a quella che ricevono le cellule della parte periferica (zona 1) e quindi sono più esposte al rischio di ipossia11. L’aumento della pressione atriale destra aumenta la pressione venosa epatica e causa la necrosi degli epatociti della zona 3 con un profilo enzimatico a tipo colestasi12. Poiché la vena porta ha soprattutto recettori alfa e le vene epatiche recettori beta, la stimolazione simpatica combinata con l’aumento della pressione venosa epatica può ridurre significativamente la perfusione del fegato. La stimolazione adrenergica determina vasocostrizione della vena porta che, associata all’aumento della pressione atriale destra, causa ipoperfusione dell’organo, accumulo di adenosina che attiva i nervi renali e di cAMP che agisce sui tubuli renali aumentando la ritenzione di sodio (sindrome epatorenale)13. Anche a livello intestinale l’aumento della pressione atriale destra induce importanti alterazioni funzionali. La circolazione dei villi intestinali è molto simile a quella della midollare renale. La direzione del flusso nelle arteriole centrali che perfondono i villi è in direzione opposta a quella delle venule che riportano il sangue alla base dei villi per cui si creano le basi per un meccanismo in “controcorrente”. Questo determina un gradiente osmotico tra la base e l’apice dei villi che facilita il riassorbimento di acqua ma crea le premesse per un “furto” di flusso tra la base e l’apice dei villi che vengono esposti al rischio di anossia. Lo scambio “in controcorrente” diviene più importante quando il flusso è ridotto per cui la riduzione di portata che si verifica nei pazienti con SC può causare l’“ischemia non-occlusiva” dell’apice dei villi14. Inoltre la riduzione del flusso intestinale è correlata all’aumento della pressione intestinale e della tensione di parete con conseguente distensione delle anse e riduzione del flusso alla mucosa15. L’ischemia intestinale e il danno ipossico dell’apice dei villi possono aumentare la permeabilità intestinale e la concentrazione ematica di endotossine e citochine nei pazienti con SCAv16. In questi pazienti lo spessore delle pareti intestinali e la concentrazione della flora batterica legata al muco della parete intestinale sono aumentati e l’ispessimento della parete è associato con sintomi gastrointestinali, ridotta capacità di assorbimento e cachessia17. Inoltre l’attivazione anche a livello della parete intestinale degli scambiatori tra ioni sodio e idrogeno con conseguente aumentato riassorbimento di sodio, provoca un aumento della concentrazione intraluminale di idrogeno e la conseguente acidificazione dell’ambiente intestinale con dismicrobismo e produzione di sostanze che ulteriormente aumentano la permeabilità capillare e inducono infiammazione18.

L’aumento della pressione atriale destra ha inoltre importanti ripercussioni sul riempimento ventricolare attraverso il fenomeno della interdipendenza dei ventricoli: essa infatti rappresenta un’approssimazione della pressione intrapericardica e quando supera i 10 mmHg comporta il “pericardial restraint”, la fisiopatologia di tipo costrittivo, per cui il riempimento dei due ventricoli diviene mutualmente competitivo col variare della pressione intratoracica. Per tale motivo incrementi acuti del volume cardiaco possono ridurre la gittata sistolica in apparente violazione della legge di Frank-Starling, mentre la terapia con vasodilatatori bilanciati riduce la pressione tele-diastolica ventricolare sinistra senza ridurre o addirittura aumentando la gittata sistolica19. Tutti questi motivi spiegano perché la persistente congestione è elemento prognostico più forte della riduzione dell’indice cardiaco: i pazienti ipoperfusi e congesti hanno profilo emodinamico basale e prognosi sfavorevole mentre l’indice cardiaco risulta meno strettamente correlabile a morte, riospedalizzazione, trapianto20.

Nei pazienti con SC è presente insufficienza mitralica di grado almeno moderato in circa il 50% e di grado severo in circa il 10% dei casi, con frequenza quasi doppia nei pazienti con frazione d’eiezione inferiore al 30%. Essa è dovuta a meccanismi diversi: dilatazione ventricolare sinistra con tethering dei lembi, anomalie della cinetica della base di impianto dei papillari nei pazienti con cardiopatia ischemica, asincronia di contrazione nei pazienti con blocco di branca sinistra non correlata alla frazione d’eiezione né al rimodellamento globale del ventricolo sinistro21. L'aumento della pressione atriale sinistra conseguente al rigurgito si ripercuote sul circolo polmonare per cui l'insufficienza valvolare è il maggior determinante dell'ipertensione polmonare nei pazienti con SC22 ed è associata a rischio aumentato di ricovero e di morte23.

Nello SC la prevalenza di ipertensione polmonare valutata all’ecocardiogramma si aggira attorno al 25-50%. Nello SCAv l’ipertensione polmonare è presente al cateterismo destro in almeno il 50% dei casi, è più frequente nei pazienti più compromessi ed è elemento predittivo indipendente di mortalità24, 25. L’ipertensione polmonare e la presenza di malattie che coinvolgono anche il ventricolo destro possono causare la comparsa di insufficienza del ventricolo destro con aumento della pressione atriale destra, dilatazione ventricolare, insufficienza tricuspidale severa. La riduzione della portata destra e del flusso polmonare possono ridurre le pressioni polmonari che talora risultano falsamente normali o ridotte2425 così come nel caso di pazienti sottoposti a diuresi aggressiva che induca eccessiva riduzione delle pressioni di riempimento sinistre26.


Alterazioni endocrine e metaboliche

Al di là delle alterazioni emodinamiche care al cardiologo, il paziente con SCAv va incontro a profonde modificazioni metaboliche/endocrinologiche che causano progressiva perdita di massa muscolare, scarso assorbimento di substrati e deficit vitaminici e metabolici che aggravano la già ridotta capacità funzionale e possono arrivare alla cachessia cardiaca. Sono stati infatti dimostrate alterazioni metaboliche periferiche (insulino-resistenza, resistenza al fattore di crescita GH IGF-1, ridotta produzione di steroidi anabolizzanti), perdita di tessuti attivi (riduzione del tessuto muscolare, adiposo, osseo), deficit di ferro indipendentemente dalla dimostrazione di anemia, iperuricemia27. L’insulino-resistenza è correlata a disfunzione sistolica e diastolica, fibrosi, apoptosi e ipertrofia che si sovrappongono all’attivazione neuro-umorale e infiammatoria, alle alterazioni del muscolo periferico e agli effetti dell’ipoperfusione periferica e dell’inattività già presenti nello SC e per tali motivi è correlata alla severità dello SC, alla tolleranza allo sforzo e alla prognosi28. I pazienti con SCAv presentano deficit di testosterone, di deidro-epiandrosterone e resistenza al fattore di crescita -1 insulin like (GH/GF-1) che risultano correlabili alla classe funzionale, alla FE e al NTproBNP e alla sopravvivenza29. Sono state dimostrate riduzione della densità ossea che risulta correlabile con la classe funzionale ed i livelli testosterone30 e deficit della vitamina D che ha dimostrato valore prognostico indipendente31. Ipertrofia e ridotta forza muscolare sono state dimostrate nei pazienti con SC e la riduzione della massa muscolare risulta correlata col consumo di picco di ossigeno al test cardio-polmonare32. Poiché le catecolamine, le citochine e i peptidi natriuretici attivano il catabolismo degli adipociti si riduce anche la massa di tessuto adiposo. Lo SC aumenta l’adiponectina, citochina prodotta dagli adipociti, che riduce la sensibilità all’insulina e si è dimostrata correlata alla severità e prognosi dello SC27. Nello SC è frequente riscontrare aumento di acido urico dovuto al catabolismo delle purine, all’attivazione della xantina ossidasi da citochine, e agli effetti della terapia con diuretici e ACE inibitori e risulta correlato alla gravità dello SC e alla prognosi, tanto da entrare nel calcolo del HFSS score33. È noto che nello SC è presente deficit di ferro indipendente dallo stato anemico. Esso riconosce cause multifattoriali: deficit nutrizionale, perdite di sangue, ridotto trasferimento ai tessuti ferro-dipendenti. Quest’ultimo meccanismo è legato all’azione dell’epcidina, una proteina sviluppatasi nel corso dell’evoluzione come difesa dalle infezioni da batteri di cui blocca il metabolismo ferro-dipendente. La sintesi della proteina viene attivata nel corso della risposta infiammatoria per mezzo delle citochine e dei lipopolisaccaridi elevati anche nello SCAv. Essa inibisce la ferroportina che trasporta il ferro dalle cellule in circolo impedendone l’utilizzazione periferica non solo nel midollo osseo ma anche in tutte le attività enzimatiche che dipendono dal ferro (mioglobina, catena ossidativa mitocondriale)34. Infine è noto che nello SC sono dimostrabili alterazioni della muscolatura periferica consistenti in riduzione della massa e forza sviluppata dai muscoli, riduzione del numero e dimensioni delle fibre, sostituzione delle catene di miosina pesante veloce con catene lente, riduzione del numero e dimensioni dei mitocondri, sostituzione con tessuto adiposo, ridotta densità dei capillari. Esse sono dovute all’inibizione delle vie anaboliche e all’attivazione di quelle cataboliche con ridotta sintesi delle proteine, autofagia ed apoptosi correlabili all’attivazione del sistema nervoso simpatico e dell’asse renina-angiotensina, delle citochine e dei fattori di trasformazione della famiglia β (miostatina). Inoltre è stato recentemente dimostrato che il muscolo striato dei pazienti con HFpEF mostra riduzione della forza sviluppata, maggiore concentrazione di miostatina 2 e minori dimensioni mitocondriali rispetto ai pazienti con HFrEF e si è confermato che le alterazioni del muscolo striato contribuiscono in modo significativo alla sintomatologia e ridotta tolleranza allo sforzo dei pazienti con SC35.  

Tutte le alterazioni metaboliche sin qui sommariamente esaminate contribuiscono al depauperamento dei parenchimi, alla riduzione della massa corporea e, in ultima analisi, conducono alla cachessia cardiaca e alla fragilità. Elementi come vedremo fondamentali per le scelte terapeutiche avanzate dello SCAv.


Clinica dello scompenso cardiaco avanzato

Dal punto di vista clinico la definizione di SCAv comporta che siano stati portati ripetutamente a termine senza successo tentativi di ottimizzare la terapia, che il paziente sia già stato più volte ricoverato e che soffra di severe limitazioni funzionali con sintomi anche a riposo. Si tratta quindi di un paziente in cui sia stata definita l’eziologia, il fenotipo, l’assenza di cause correggibili e di eventi precipitanti curabili. Completato questo percorso il paziente può essere valutato per trapianto cardiaco, impianto di assistenza meccanica (VAD) o cure palliative.

Lo studio del paziente con SCAv deve valutare contemporaneamente la situazione in atto, la storia del paziente e le possibilità terapeutiche plausibili del futuro:

  1. definizione della gravità emodinamica: da essa dipende la scelta immediata della terapia più idonea al supporto delle condizioni di circolo (prosecuzione o ottimizzazione della terapia medica, vasoattivi endovena, sistemi di supporto meccanico temporanei);
  2. studio della eziologia e del fenotipo36: essi determinano la scelta e tempistica delle procedure e terapie cardiologiche specifiche (angioplastica coronarica, biopsia endomiocardica, antiaggregazione, immunosoppressori);
  3. individuazione di cause precipitanti la cui correzione possa risolvere la gravità clinica in atto: prima fra tutte adeguatezza, aderenza e tolleranza alla terapia, la comparsa di aritmie, il sopraggiungere di complicazioni infettive, la persistenza di abitudini di vita non corrette, il sovrapporsi di nuovi eventi ischemici, la comparsa o aggravamento di anemia;
  4. definizione della reversibilità della disfunzione d’organo: tutti i pazienti con SCAv per quanto visto sopra presentano segni più o meno gravi di disfunzione renale ed epatica, deficit ventilatorio, anemia, perdita di massa muscolare. Se severe ed irreversibili esse compromettono la possibilità di ricorrere a trapianto cardiaco e/o VAD e se ne deve ostinatamente accertare la gravità e irreversibilità;
  5. controindicazioni a trapianto/VAD: oltre alla già citata irreversibilità della disfunzione d’organo, età avanzata, patologia neoplastica non in fase di remissione, abitudine tabagica e alcoolica e abuso di sostanze tossiche, mancanza di un adeguato supporto sociale e familiare e persistenza di grave patologia psichiatrica rendono non percorribile la via del trapianto e indirizzano verso possibili altre terapie. Emorragie in atto, patologia infettiva in corso, neoplasie con breve follow-up devono essere rivalutate nel tempo e discusse con gli specialisti del caso. L’ipertensione polmonare e la disfunzione ventricolare destra se irreversibili, come vedremo, controindicano rispettivamente il trapianto cardiaco e VAD.

La visita del paziente rappresenta ancora una stima attendibile dell’emodinamica che nello schema classico proposto dalla dottoressa Stevenson è suddivisibile in quattro stati basandosi sulla presenza dei segni di congestione ed ipoperfusione37. Tale schema ha il vantaggio non solo della facilità di esecuzione clinica ma anche di una attendibile corrispondenza con l’emodinamica invasiva e con la prognosi. Infatti anche in epoca di tecnologia avanzata l’esame obiettivo rimane centrale per la valutazione del paziente con SCAv38. Il turgore giugulare rappresenta tuttora una stima affidabile della pressione atriale destra e nel paziente con SCAv è indicativo nel 70-75% dei casi di aumento della pressione di incuneamento capillare, è guida attendibile per la terapia di decongestione ed è indicativo di disfunzione biventricolare: se la terapia diuretica induce aumento della creatinina e il turgore persiste è probabile che concomiti disfunzione ventricolare destra. Col progredire della severità dello SCAv si riduce la frequenza con cui si riscontrano i rantoli polmonari a causa dell’aumentato drenaggio linfatico e della frequente concomitanza di disfunzione ventricolare destra. L’assenza di “stasi polmonare” e di una franca congestione polmonare alla radiografia del torace pertanto non escludono che le pressioni di riempimento siano elevate. Gli edemi declivi sono espressione dell’aumento del liquido extracellulare e non devono essere usati come stima del volume intravascolare. Sono correlabili alla ritenzione solo se associati a incremento del peso corporeo e a turgore giugulare ma compaiono tardivamente, quando la ritenzione idrosalina è superiore a circa 5 litri. La scarsa correlazione tra volume plasmatico, ritenzione idrosalina e la presenza di edemi declivi è spiegata dal variabile legame del sodio con l’interstizio39. Il 65% del sodio corporeo infatti è contenuto nei liquidi extracellulari e nell’interstizio, legato ai gruppi COOH (dotati di carica elettrica negativa) dei glicosaminoglicani la cui compatta struttura riduce la compliance dell’interstizio e favorisce il drenaggio linfatico. A seguito del ripetersi di episodi di congestione e di aumento della pressione venosa il drenaggio linfatico viene ostacolato, sempre più sodio si accumula nell’interstizio e la struttura dei glicosaminoglicani perde compattezza. Ciò comporta l’aumento della compliance dell’interstizio e la progressiva riduzione del drenaggio linfatico. In altre parole si crea un circolo vizioso per cui l’edema richiama edema ed è sempre più difficile “estrarre” il sodio interstiziale.

Nel paziente ricoverato raramente si rende necessario ricorrere alla valutazione emodinamica invasiva completa al letto del malato come guida alla terapia ad eccezione di casi particolari in cui la risposta alla terapia sia insoddisfacente o sussistano dubbi sul profilo emodinamico (stato settico sovrapposto). È sicuramente utile invece il monitoraggio invasivo della pressione venosa centrale e della pressione arteriosa sistemica nelle forme più avanzate di SCAv che minacciano di sconfinare verso lo shock cardiogeno (guida alla terapia e monitoraggio dei lattati e della saturazione venosa centrale).

Più recentemente il Registro Americano sull’assistenza meccanica (INTERMACS)40, che raccoglie più di 25.000 pazienti, ha proposto una classificazione che suddivide i pazienti con SCAv in sette classi con numerazione decrescente al progredire della gravità (la prima corrisponde al paziente in shock cardiogeno), della risposta alla terapia inotropa (stabilità o meno in terapia e dopo sospensione) e alla frequenza dei ricoveri e della stabilità e compromissione funzionale in terapia medica. Essa ha reso più omogenea la terminologia usata per descrivere questi pazienti e, anche se non ancora entrata nel linguaggio comune al di là dei Centri che si occupano di trapianto e VAD, si è dimostrata utile dal punto di vista prognostico per la sua affidabilità e semplicità.


Terapia “ottimale” dello scompenso cardiaco

Per ciò che riguarda la terapia orale, la pubblicazione degli studi clinici più recenti ha aggiunto nuovi farmaci (i “magnifici quattro” della terapia dello scompenso) all’armamentario di quelli raccomandati4142 ma ha anche generato qualche incertezza. Lo schema tradizionale prevedeva l’inizio della terapia con ACE inibitori, la successiva introduzione dei beta bloccanti, la graduale “titolazione” di entrambi fino alla dose massima tollerata, l’inizio dei risparmiatori di potassio. Poi abbiamo capito che non è importante raggiungere una dose massimale ma invece un obiettivo clinico e che dosi anche non “massimali” potevano essere utili per migliorare la prognosi e qualità di vita dei pazienti. L’arrivo del sacubritril/valsartan ha mostrato una precoce riduzione di mortalità e riospedalizzazioni rispetto all’enalapril e quello delle glifozine (dapaglifozina ed empalifozina), dell’omecamtiv mecarbil, del vericiguat, dei farmaci per il trattamento dell’iperpotassiemia, dei sistemi impiantabili di monitoraggio della pressione arteriosa polmonare e di modulazione della contrattilità cardiaca hanno mostrato vantaggi aggiuntivi ma sollevato nuovi interrogativi. Recenti editoriali di McMurray e Packer43 propongono di iniziare la terapia con beta bloccanti (che riducono precocemente la mortalità) e glifozine (che riducono soprattutto il rischio di peggioramento dello SC evento non raro dopo l’inizio del beta bloccante e quindi le riospedalizzazioni precoci), proseguire con l’aggiunta di sacubitril/valsartan o di ACE inibitore se la pressione arteriosa sistolica è inferiore a 100 mmHg (riducendo eventualmente la dose di diuretico) ed infine inserire entro due settimane il risparmiatore di potassio se la potassiemia è normale e la funzione renale non è molto ridotta (confidando sull’effetto benefico del sacubitril/valsartan e delle glifozine sulla funzione renale). Sinagra et al.44 sono invece favorevoli ad un approccio più “conservativo” in cui, vista la precocità del beneficio, si inizi da subito col sacubitril/valsartan associato al beta bloccante e al risparmiatore di potassio, si rivaluti entro 15 giorni la pressione arteriosa per eventuali aggiustamenti della dose di sacubitril/valsartan o passaggio all’ACE inibitore e la possibilità di iniziare la glifozina, si introduca entro un mese la glifozina e dopo 3-6 mesi si consideri la necessità di iniziare col vericiguat e/o omecamtiv mecarbil. Un recente documento dell’ANMCO45 suggerisce di articolare l’inizio della quadruplice terapia nel modo seguente. Se il paziente non assume terapia si consiglia di iniziare sa subito con ACE inibitore o sartano, beta bloccante e glifozina, di aggiungere entro il mese anche il risparmiatore di potassio e di sostituire prima possibile l’ACE inibitore con sacubitril/valsartan. Se il paziente già assume ACE inibitore o sartano di sostituirlo col sacubitril/valsartan e di iniziare entro il mese il risparmiatore di potassio. Se il paziente mantiene labilità emodinamica di procrastinare l’inizio del beta bloccante; se ipoteso di iniziare con beta bloccante e risparmiatore di potassio per poi rivalutare l’ACE inibitore a piccole dosi e in seguito la tollerabilità del sacubitril/valsartan; se tachicardico e ipoteso di cominciare con caute dosi di beta bloccante e rimandare l’ACE inibitore ed eventualmente il sacubitril/valsartan ad una successiva rivalutazione. Come si vede il tentativo comune è quello di modulare sequenze di inizio, associazioni e dosaggi in relazione al profilo di ciascun paziente e in ogni caso di arrivare a proteggere il paziente nel minor tempo possibile. Ciascuna raccomandazione è frutto dell’opinione di esperti di indiscutibile valore ma saranno necessari studi dedicati e l’esperienza sul campo per definire nel prossimo futuro le strategie vincenti.

L’omecamtiv mecarbil è un attivatore diretto della miosina che aumenta la gittata sistolica, riduce il rimodellamento e le concentrazioni di peptidi natriuretici nei pazienti con HFrEF. Nel 2021 sono stati pubblicati i risultati dello studio GALACTIC che ha arruolato 8232 pazienti con FE < 35%, di cui poco più di un quarto con SCAv (NHYA III-IV, FE < 30%, più di due ricoveri all’anno, severa limitazione funzionale). Dopo un periodo di 22 mesi si è registrata una riduzione significativa dell’end point di morte ed eventi cardiovascolari nei pazienti con SCAv (HR 0,80, p<0,001, NNT 12), legata soprattutto alla riduzione delle ospedalizzazioni, senza significativi effetti sulla pressione arteriosa, funzione renale, potassiemia ma con aumento (RR 1, 51) del rischio di infarto e di incremento della troponina nei pazienti con eziologia ischemica46. Quando stratificati per valori della FE i pazienti più compromessi (FE <22%) traevano un beneficio maggiore di quelli con FE >33%47.

Nello studio VICTORIA48 è stata valutata l’efficacia del vericiguat, un attivatore diretto del cGMP, in pazienti con SC, FE media 29%, classe NYHA III nel 40% dei casi, ricoverati per SC o trattati con diuretico endovena nei 3-6 mesi precedenti. Dopo circa 11 mesi i pazienti trattati andavano meno frequentemente incontro a morte e riospedalizzazione (HR 0,90, p=0,02) con una maggiore frequenza di ipotensione e anemia, ma senza significative alterazioni della funzione renale.

L’iperpotassiemia, definita come incremento del potassio ematico al di sopra di 5 mEq/L, può essere presente fino al 40% dei pazienti con SC e rappresenta un’importante causa di mancata prescrizione degli inibitori del sistema renina-angiotensina con conseguente aumento del rischio di mortalità. Sono stati recentemente approvati due farmaci leganti il potassio, il patiromer e lo zirconio ciclosilicato, che un recente documento di consenso della Società Europea di Cardiologia49 suggerisce di impiegare sotto stretto monitoraggio del potassio e della funzione renale con l’obiettivo di mantenere la terapia di ACE inibitori e sartani.

Un’altra novità positiva nel campo dello SC con frazione d’eiezione preservata è il risultato dell’EMPEROR-Preserved50 che ha arruolato 5988 pazienti con FE >40% di cui 2997 trattati con 10 mg al giorno di empaglifozina: dopo un periodo di poco più di due anni il rischio di ricovero per scompenso è risultato ridotto in misura pari al 29% con conseguente riduzione del rischio combinato di morte e ricovero. Per la prima volta, dopo molti anni, sembra di intravedere uno spiraglio nella terapia finora desolatamente deludente dello SC a frazione d’eiezione preservata.


Terapia non farmacologica

La disponibilità di sistemi percutanei di trattamento dell’insufficienza mitralica consente oggigiorno di trattare pazienti che non sarebbero proponibili per l’intervento tradizionale per rischio operatorio proibitivo, a condizione che la severità della dilatazione e disfunzione cardiaca non siano troppo avanzate. In altre parole l’intervento percutaneo è favorevole se l’insufficienza mitralica è severa ma i volumi cardiaci e la frazione d’eiezione non esprimano una compromissione contrattile irreversibile (insufficienza mitralica sproporzionata rispetto all’entità della dilatazione). Applicando la formula di Gorlin ad un paziente con FE pari a 30%, questa condizione si realizza quando l’area effettiva del rigurgito (ERO) è superiore a 0,3-0,4 cm², il volume telediastolico è maggiore di circa 200 ml (100 ml/m² di superficie corporea) ed il rapporto ERO/volume telediastolico è superiore a 0,165 cm² per 100 ml51.

La fibrillazione atriale è frequente nei pazienti con SC: nel Registro Europeo è presente nel 27, 29 e 39% rispettivamente dei pazienti con HFrEF, HFmEF, HFpEF. Tuttavia non ha valore prognostico indipendente per mortalità in nessuna delle tre categorie, mentre rimane significativamente associata a riospedalizzazione e all’end-point combinato di morte e riospedalizzazione nello SC con FE mediamente ridotta o preservata52.  Più di un terzo dei pazienti con HFrEF ha storia di fibrillazione atriale, poco meno di un quarto presenta l’aritmia alla prima valutazione e il 2,4% la sviluppa al follow-up. Solo in quest’ultimo caso la fibrillazione atriale risulta associata ad un rischio maggiore di mortalità globale e cardiovascolare e di peggioramento dello SC53. Non è del tutto chiarito se nei pazienti con SCAv la strategia di perseguire il ritmo sinusale si associ a un beneficio: nel recente EAST-AFNET454 il tentativo di ripristinare precocemente il ritmo sinusale sembra ridurre più significativamente il rischio di morte cardiovascolare, ictus, ricovero per SC o sindrome coronarica acuta nei pazienti con HFrEF e con classe NYHA più avanzata, indipendentemente dal modo con cui si ottenga (terapia farmacologica, cardioversione, ablazione). Nello studio CASTLE55, che ha arruolato solo pazienti con FE ridotta, l’ablazione riduce l’end-point combinato di morte e peggioramento dello SC ma solo nei pazienti con FE >25%, in classe NYHA II e di età inferiore ai 65 anni.

L’impianto di dispositivi per il monitoraggio continuo della pressione arteriosa polmonare diastolica, usata come approssimazione della pressione di riempimento ventricolare sinistra, ha dimostrato di ridurre il rischio di ricovero per peggioramento dello scompenso in misura pari al 57% in tutte le classi di FE dello SC56. Il sensore non richiede elettrodi né batterie ed è contemporaneamente interrogato e ricaricato per mezzo di una antenna esterna. Viene impiantato in un ramo dell’arteria polmonare durante il cateterismo destro per mezzo di un dispositivo di rilascio apposito. Nello studio, che ha incluso 1200 pazienti in classe funzionale NYHA III arruolati in 104 centri negli Stati Uniti, si sono verificati solo 5 complicazioni legate alla presenza del dispositivo e un guasto dell’apparecchio. Il dispositivo sarebbe uno dei pochi mezzi efficaci per prevenire i ricoveri nello SC con FE preservata.

Recentemente è stata proposta la modulazione elettrica della contrattilità cardiaca57 mediante l’impianto di uno stimolatore distinto dal pace-maker e dal defibrillatore collegato e due elettrodi sul setto interventricolare e l’applicazione di una corrente bifasica di elevata energia e lunga durata che, essendo erogata durante la fase di refrattarietà della cellula miocardica, non produce eccitazione ma aumenta il picco di calcio intracellulare e aumenta la forza contrattile. Nei modelli sperimentali la tecnica riattiva geni e proteine che regolano il calcio intracellulare, induce rimodellamento favorevole e riduce la fibrosi, promuove il tono vagale. Studi clinici di piccole dimensioni hanno dimostrato un convincente miglioramento della tolleranza allo sforzo e della qualità di vita e una meno evidente riduzione della mortalità e recidive di scompenso. Tali risultati sono stati ottenuti in pazienti con frazione d’eiezione inferiore al 35%, in ritmo sinusale e non eleggibili per resincronizzazione. Non ne traggono beneficio i pazienti con blocco di branca destra mentre è in studio la possibilità di impianto nei pazienti con fibrillazione atriale e non responder alla resincronizzazione.  


Terapia endovenosa dello scompenso cardiaco “acuto”

Per ciò che riguarda i pazienti con SC “acuto”, o meglio secondo le recenti raccomandazioni, con “insufficienza cardiaca scompensata” che si ricoverano in ospedale i diuretici rappresentano la terapia di prima linea. Pur essendo i farmaci usati da più tempo, la raccomandazione sul loro uso non è fondata su trial randomizzati. Sappiamo che nel paziente ricoverato per SC i conti tra congestione, ritenzione di sale ed acqua, volemia e sintomi non tornano:

  1. un incremento ponderale superiore a 1 Kg si registra solo in meno della metà dei pazienti;
  2. il volume plasmatico è ampiamente variabile da caso a caso a anche nel singolo paziente;
  3. il contenuto corporeo di sodio è aumentato sia nei pazienti con edema sia in quelli senza;
  4. le variazioni del contenuto di sodio non sono correlate a cambiamenti del contenuto corporeo di acqua;
  5. la dispnea e gli edemi sono poco correlati alle variazioni del peso corporeo e del volume plasmatico;
  6. la dispnea, gli edemi ed il peso corporeo sono poco correlabili con i dati emodinamici.

Sappiamo inoltre che l’aumento delle pressioni di riempimento può essere dovuto non ad aumento della volemia ma a spostamento di liquidi dal compartimento venoso a quello centrale e che la velocità di spostamento dei liquidi dal compartimento interstiziale a quello intravascolare è limitata e non dovrebbe superare i 300 ml/ora58-60. Per tali motivi l’uso troppo zelante dei diuretici può indurre riduzione del volume ematico necessario per mantenere la portata cardiaca e quindi ulteriormente ridurre la perfusione periferica. I timori legati all’aumento della creatinina secondaria all’uso dei diuretici sono stati limitati dalla constatazione che “l’insufficienza renale” da diuretici, se associata a riduzione della congestione, comporta una prognosi favorevole: si tratta di una “pseudo-insufficienza renale” dovuta alla emoconcentrazione dei soluti che rispecchia una efficace decongestione e quindi è il segnale di una risposta positiva alla terapia. Per ciò che riguarda la valutazione in acuto della risposta diuretica la recente pubblicazione della Società Europea di Cardiologia4 e delle Linee Guida61 caldeggia la determinazione della sodiuria e della diuresi: se dopo 2-6 ore risultano rispettivamente inferiori a 50-70 mEq/L e 100-150 ml/ora si consiglia di raddoppiare la dose di diuretico e se insoddisfacenti dopo altre 6 ore di ricorrere alla associazione con metolazone e acetazolamide. Più recentemente l’empaglifozina62 si è dimostrata utile e non rischiosa in fase acuta e si è quindi affacciata come possibile componente dell’associazione di diuretici nel contesto dello SCAv. La strategia di graduare l’intervento dapprima con incremento della dose e poi con associazione di diuretici è contestata da chi invece propone63, sin dal primo momento, l’uso di diuretici a dosi elevate ed in associazione comprendente anche i vaptani allo scopo di bloccare il riassorbimento di sodio in tutti i tratti del nefrone (“blocco sequenziale”). Le incertezze che riguardano l’inizio della terapia diuretica si riflettono anche sulla difficoltà di definire gli obiettivi ottimali della decongestione e quindi del momento in cui allentare la pressione farmacologica. Non è chiaro se affidarsi alla clinica (riduzione degli score di congestione), alla riduzione del peso corporeo (riportare il peso corporeo al valore precedente l’episodio di scompenso e/o riduzione di 0,7-0,8 Kg/die), alla perdita di liquidi (mantenersi attorno a 150-250 ml/ora corrispondenti a 3600-6000 ml/die), alla composizione urinaria, alle variazioni della funzione renale, all’aumento dell’ematocrito (5-7%), alla riduzione del BNP o ad altre metodiche (bioimpedenza, monitoraggio della pressione polmonare). Nessuna strategia ha ricevuto validazione in studi dedicati.

Le Linee Guida della Società Europea di Cardiologia del 202161 hanno innalzato a 110 mmHg il valore della pressione arteriosa sistolica oltre il quale somministrare vasodilatatori nello SC acuto, precludendo di fatto l’uso di questi farmaci nella gran parte dei pazienti con SCAv ricoverati in ospedale che spesso sono già in terapia orale con farmaci che riducono la pressione arteriosa (ACE inibitori o sacubitril/valsartan) e/o presentano disfunzione cardiaca di severità tale da non sviluppare valori così “elevati” di pressione. Le precedenti Linee Guida del 2016 fissavano il limite di 90 mmHg che probabilmente risulta più applicabile e utile in pazienti così compromessi. Il razionale per l’uso del vasodilatatore bilanciato (nitroprussiato di sodio) nello SC risale agli studi di Cohn64 che dimostrò che esso aumenta la portata in misura proporzionale alla riduzione della pressione  di riempimento del ventricolo sinistro e ai successivi lavori6566 nei pazienti con SCAv e frazione d’eiezione estremamente ridotta che hanno mostrato che la riduzione delle pressioni di riempimento indotta dal vasodilatatore bilanciato induce rapida risoluzione della congestione, costituisce il “ponte” ideale per la terapia orale con ACE inibitore se guidata dagli stessi end-point emodinamici e si traduce in un’aumentata sopravvivenza. La diversità fisiopatologica tra HFrEF e HFpEF spiega come una riduzione di uguale entità della pressione di riempimento del ventricolo sinistro si traduca in un maggiore incremento della portata cardiaca nel primo caso67.  La riduzione intensiva delle pressioni di riempimento ventricolare e delle resistenze sistemiche causa la riduzione dei volumi ventricolari e dell’insufficienza mitralica con aumento della gittata sistolica anterograda. Poiché il rigurgito mitralico è il principale determinante dell’ipertensione polmonare nei pazienti con HFrEF, la riduzione dell’insufficienza mitralica, associata all’effetto vasodilatatore diretto sulle arterie polmonari è responsabile della riduzione della pressione arteriosa polmonare e quindi del post-carico del ventricolo destro68. Inoltre la riduzione della pressione ventricolare destra riduce l’effetto di compressione pericardica (“pericardial restraint”) e favorisce il riempimento ventricolare sinistro con conseguente aumento della gittata sistolica19. Il limite principale della terapia è ovviamente l’ipotensione che può aggravare l’ipoperfusione e peggiorare l’insufficienza renale, per cui la pressione arteriosa media non deve scendere sotto i 65 mmHg69.

Gli inotropi devono essere riservati ai pazienti con pressione arteriosa sistolica inferiore a 90 mmHg e con evidenti segni di ipoperfusione. Essi vengono distinti per proprietà farmacodinamiche in adrenergici, il cui meccanismo d’azione è mediato dai recettori beta, e non adrenergici (inibitori delle fosfodiesterasi e levosimendan). Nell’insufficienza cardiaca si assiste a riduzione del numero dei recettori beta e a modificazione della percentuale di recettori beta 1 e beta 2 che passa rispettivamente da 80 e 20% a 60 e 40%. La riduzione dei recettori beta 1 è più marcata nello SC dovuto a cardiopatia ischemica e l’aumento relativo dei beta 2 comporta un minore accoppiamento con le proteine effettrici della contrattilità. L’effetto combinato della duplice alterazione è quello di rendere il miocita meno “sensibile” alla stimolazione adrenergica e “proteggere” la cellula dall’effetto tossico dovuto all’incremento delle catecolamine che si verifica nello SC70. La somministrazione di beta bloccanti tende a ripristinare la normale concentrazione di beta recettori in misura variabile a seconda del tipo di beta bloccante (ripristino completo col metoprololo, parziale col carvedilolo), e dell’entità della down-regulation iniziale. Pertanto la somministrazione di dobutamina in un paziente con SC trattato con metoprololo tende ad aumentare la portata cardiaca e a ridurre le pressioni di riempimento più che in un paziente trattato con carvedilolo71. Non è quindi concettualmente “errato” somministrare un inotropo adrenergico a un paziente che assume beta bloccanti, anche se la risposta risulta variabile per i motivi sopra esposti. Non soffrono di queste limitazioni gli inotropi che aggirano i beta recettori: enoximone e levosimendan. Nello studio LIDO, che ha valutato con cateterismo destro pazienti con SC e pressione arteriosa sistolica superiore a 110 mmHg, il beneficio emodinamico e la sopravvivenza risultavano superiori nei pazienti trattati con levosimendan che assumevano beta bloccante72. L’uso degli inotropi è correlato con aumento della mortalità: se da un lato è vero che vengono impiegati in pazienti più compromessi e quindi con prognosi peggiore, dall’altro è stato dimostrato mediante analisi di confronto per severità dello SC (propensity score) che hanno un effetto peggiorativo indipendente73. Nello studio PROTECT74 più di un terzo dei pazienti ricoverati per SC ha elevati valori di troponina all’ingresso ma in circa un quinto dei casi l’incremento della troponina inizia durante il ricovero a testimoniare un danno miocardico che può essere indotto dai trattamenti eseguiti nella fase intraospedaliera. Gli inotropi infatti aumentano il consumo miocardico di ossigeno, inducono aritmie ventricolari e desensibilizzazione dell’apparato contrattile al calcio, per cui nel corso del ricovero si richiede un incremento dei dosaggi, inducono un deterioramento della funzione ventricolare che dopo la sospensione dell’inotropo spesso risulta inferiore ai valori basali75. Per questo motivo spesso la decisione di iniziare gli inotropi in pazienti con SCAv può essere una strada di non ritorno e deve essere presa con estrema cautela come supporto temporaneo in attesa della risoluzione di cause reversibili di SC, come ponte verso il trapianto e/o l’impianto di VAD o come supporto palliativo nel caso in cui questi non siano proponibili76. Particolare importanza deve essere riservata durante la terapia inotropa al monitoraggio della potassiemia: l’ipokaliemia infatti riduce l’efficacia della stimolazione adrenergica e la stimolazione adrenergica beta 2 favorisce l’ingresso di potassio nella cellula e può indurre ipokaliemia77, 78. Il ventricolo destro presenta peculiarità diverse rispetto al sinistro riguardo alla stimolazione inotropa. Nel circolo polmonare la densità di recettori alfa è minore che nel circolo sistemico e nello SC i recettori alfa adrenergici del ventricolo destro diventano inotropi positivi, per cui nella disfunzione ventricolare destra la stimolazione con noradrenalina può migliorare la portata cardiaca, l’interazione tra ventricoli e la perfusione coronarica senza modificare sensibilmente le resistenze polmonari79, 80. Una supposta maggiore “selettività” degli inibitori delle fosfodiesterasi sul ventricolo destro non ha trovato convincente dimostrazione poiché il miglioramento della funzione ventricolare destra è secondario alle proprietà vasodilatatrici sul circolo polmonare e sistemico, non significativamente diverse rispetto agli effetti dei vasodilatatori bilanciati81. Similmente il levosimendan rispetto alla dobutamina migliora la funzione ventricolare destra grazie alla proprietà di vasodilatazione a parità di effetto inotropo82.


Terapia sostitutiva e palliativa dello scompenso avanzato

Implicita nella definizione di SCAv è la necessità di valutare il paziente per opzioni chirurgiche avanzate (VAD e/o trapianto) o terapia palliativa. La probabilità di sopravvivenza dei pazienti con SCAV può essere stimata sulla base di sistemi a punteggio in base ai quali calcolare se la sopravvivenza attesa in terapia medica sia minore di quella ottenibile con trapianto/VAD. La stratificazione del rischio del paziente può essere perseguita per mezzo della classificazione INTERMACS40 o di altri sistemi a punteggio (MAGGIC, disponibile online) che definiscono le probabilità di sopravvivenza nel primo caso durante la fase di ricovero o nell’immediato periodo successivo, nel secondo caso a uno, due e cinque anni. In sostanza nei profili INTERMACS 1-2 è indicato il ricorso a sistemi di supporto temporaneo al circolo con stretta rivalutazione della reversibilità del danno neurologico, della funzione d’organo e dell’emodinamica e, una volta stabilizzate, di procedere a trapianto o VAD. Se il paziente può essere stabilizzato e non presenta controindicazioni potrà essere inserito in lista d’attesa per trapianto; se instabile e non presenta controindicazioni a trapianto può essere impiantato e rivalutato per trapianto (strategia Bridge to Transplant); se instabile con controindicazioni a trapianto di cui non sia nota la reversibilità può essere impiantato con strategia Bridge to Candidacy; se instabile con  controindicazioni a trapianto non reversibili, ma non per VAD, può essere impiantato con strategia definitiva (Destination Therapy).

Sono candidabili all’impianto di VAD i pazienti con sintomi severi nonostante terapia medica ottimizzata, senza disfunzione ventricolare destra e/o insufficienza tricuspidale di grado severo, con supporto psicologico e sociale affidabile che presentino:

  1. FE < 25% e incapacità di eseguire sforzo o con VO2 di picco inferiore a 12 ml/Kg/min;
  2. più di tre ricoveri nell’ultimo anno senza causa precipitante;
  3. dipendenza da inotropi o supportati da sistemi meccanici temporanei;
  4. disfunzione d’organo ingravescente: insufficienza renale ed epatica, ipertensione polmonare secondaria dovute a ipoperfusione e non a eccessiva riduzione della pressione di riempimento ventricolare sinistra (pressione di incuneamento capillare polmonare superiore a 20 mmHg, pressione arteriosa sistemica inferiore a 90 mmHg, indice cardiaco inferiore a 2 L/min/m2).

Le controindicazioni sono rappresentate da: mancanza di adeguate capacità cognitive e comportamentali e di un adeguato supporto sociale, impossibilità di assumere anticoagulanti, infezioni ed emorragie non controllate, insufficienza renale severa, aritmie ventricolari maligne e non controllabili61.

Le indicazioni a trapianto cardiaco sono lo SCAv e l’assenza di altre terapie ad eccezione del VAD. Controindicano il trapianto:

  1. infezione attiva;
  2. arteriopatia periferica malattia cerebrovascolare severa;
  3. ipertensione polmonare secondaria non reversibile;
  4. tumori a prognosi infausta; insufficienza epatica (cirrosi) e renale (ClCr < 30 ml/min 1,73 m2);
  5. malattie sistemiche con coinvolgimento multi-organo;
  6. comorbidità a prognosi infausta;
  7. BMI > 35;
  8. instabilità psichica;
  9. inadeguato supporto familiare e sociale61.

Come si può notare le indicazioni e controindicazioni emodinamiche a trapianto cardiaco e VAD sono in larga parte sovrapponibili. Importanti elementi di differenza sono l’ipertensione polmonare che controindica il trapianto cardiaco e che invece può essere dimostrata reversibile dopo impianto di VAD e la disfunzione ventricolare destra che, al contrario, controindica il VAD per le importanti ripercussioni emodinamiche indotte dal sistema di supporto sulla funzione ventricolare destra. Infatti la disfunzione ventricolare destra dopo impianto di VAD isolato sinistro è evenienza non rara (circa un quarto dei casi) ed è dovuta alle alterazioni dell’emodinamica e geometria ventricolare indotte dal dispositivo. Il VAD sinistro aspira sangue dal ventricolo sinistro e causa la dislocazione del setto interventricolare con conseguente riduzione del contributo ventricolare sinistro alla funzione destra.  L’aumentato ritorno venoso all’atrio destro e la possibile dislocazione del papillare settale della tricuspide contribuiscono ad aumentare la probabilità di disfunzione ventricolare destra con conseguente incremento di mortalità e durata del ricovero83, 84.

Le ultime indicazioni a VAD/trapianto61 escludono l’età come controindicazione assoluta. Se da un lato è condivisibile che il dato cronologico di per sé non sia una controindicazione assoluta e che, di caso in caso, si debba valutare il profilo di ciascun paziente, dall’altro è incontestabile che con l’aumentare dell’età le altre controindicazioni divengano sempre più frequenti e gravi e che la cronica e ingravescente penuria di donazioni d’organo renda eticamente ragionevole preservare i pochi cuori disponibili per i pazienti più giovani. Tra le controindicazioni devono inoltre essere attentamente valutati lo stato nutrizionale e il trofismo muscolare poiché l’eccessiva riduzione della massa corporea soprattutto quando giunga alla franca cachessia rendono proibitivo il rischio cardiochirurgico.   

La recente letteratura sottolinea la necessità di inviare precocemente i pazienti presso i Centri dedicati alle terapie avanzate dello SC, poiché l’elemento che più conta per aumentare la probabilità di sopravvivenza è la precocità della valutazione più che la selezione del paziente con SCAv idoneo a trapianto e VAD85. Ciò implica pesanti implicazioni organizzative e gestionali, note e non completamente risolte, circa il numero e la recettività dei Centri dedicati e prima ancora sulla stima della necessità di trapianto/VAD anche nel nostro Paese. Frigerio e Feltrin86 nel 2016 stimavano che, considerati i pazienti ricoverati per SC ogni anno in Italia, esclusi i troppo anziani, quelli con FE non eccessivamente ridotta, le cause reversibili di SC, le controindicazioni a VAD/trapianto e i pazienti con opzioni terapeutiche alternative, la necessità di terapia sostitutiva (VAD/trapianto) in Italia sia pari a 17 pazienti per milione di abitanti, per un totale di circa 1000 pazienti anno. Secondo i dati del Centro Nazionale Trapianti (dati online) negli ultimi anni sono stati eseguiti in Italia circa 250 trapianti all’anno e circa 100-120 impianti di VAD, per cui si può giungere alla desolante conclusione che in Italia poco più di un terzo dei potenziali beneficiari ricevano tali terapie. Se poi si confrontano questi dati con la stima dei pazienti con SCAv e si prende atto della mancanza di dati certi sulla prevalenza dello SCAv sia nei pazienti ambulatoriali sia nei ricoverati, si può facilmente vedere quanta strada rimanga ancora da percorrere per assicurare a questi pazienti sopravvivenza e qualità di vita.

Nella valutazione per terapia sostitutiva è imprescindibile la valutazione emodinamica invasiva. L’ipertensione polmonare viene attualmente definita dal riscontro di pressione arteriosa polmonare media superiore a 20 mmHg e nello SC è tipicamente post-capillare, con pressione di incuneamento capillare polmonare superiore a 15 mmHg e resistenze vascolari polmonari inferiori a 3 unità Wood87. Viene definita “combinata” quando l’aumento della pressione polmonare è sostenuto oltre che dall’incremento delle pressioni di riempimento sinistre anche da una componente reattiva o strutturata precapillare: in questo caso oltre all’aumento della pressione di incuneamento capillare si registrano anche resistenze vascolari polmonari superiori a 3 unità Wood. In entrambe i casi la valutazione deve includere la prova di reversibilità che tipicamente consiste nell’infusione di nitroprussiato di sodio: se l’ipertensione polmonare è reversibile i tempi per l’inserimento in lista devono essere accelerati; se è irreversibile o solo parzialmente reversibile il paziente viene usualmente ricoverato per saggiare la possibile regressione mediante infusione protratta di nitroprussiato di sodio e/o per valutazione ad impianto di VAD. Punto centrale della valutazione emodinamica è lo studio della funzione ventricolare destra che nella sua forma più semplice può viene espressa dall’aumento della pressione atriale destra (≥15 mmHg) e del rapporto tra pressione atriale destra e pressione di incuneamento capillare polmonare (≥0,8) e dalla riduzione degli indici di lavoro del ventricolo destro e di pulsatilità polmonare (≤1,85). Quest’ultimo è il rapporto tra la pressione differenziale polmonare e la pressione atriale destra ed esprime la capacità del ventricolo destro di sviluppare pressione senza aumentare la pressione venosa88. Dal punto di vista clinico si è dimostrato attendibile per la stima della prognosi dei pazienti con SCAv e per la scelta dei sistemi di supporto meccanico temporaneo o SC con maggiore compromissione emodinamica e nello shock cardiogeno89.

Da ultimo il paziente con SCAv che non può essere inserito in lista d’attesa per trapianto e non può impiantare un VAD deve essere valutato per la terapia palliativa. Dovrebbero essere valutati per la terapia palliativa i pazienti con progressivo decadimento funzionale e dipendenza anche per le attività quotidiane, sintomi severi nonostante terapia ottimale, ricoveri frequenti, esclusione da programma VAD/trapianto, cachessia cardiaca, valutazione clinica di fine vita. In questi pazienti l’obiettivo è quello della riduzione dei sintomi e mantenimento di qualità di vita accettabile, supporto personale e familiare, programmazione degli eventi finali della vita (rianimazione, morte a casa, sospensione della terapia infusionale e disattivazione di defibrillatore e sistemi di supporto89, 90. Le indicazioni contengono suggerimenti condivisibili circa i criteri utili alla identificazione del paziente, all’obiettivo sintomatologico della terapia, alle possibilità di disattivare dispositivi e di sospendere terapie futili. Richiedono una non scontata disponibilità del paziente ad essere completamente informato e ad esprimere decisioni in merito alla fine della propria vita non sempre accettate fino in fondo e manifestate con chiarezza e la forte compartecipazione dei familiari, che non sempre sono nelle condizioni di poter sostenere un carico organizzativo ed emotivo così pesante e che qualche volta tendono a demandare la cura del proprio familiare ai sanitari e all’ospedale.


Conclusioni

In conclusione, solo di recente lo SCAv ha ricevuto una adeguata definizione che ha consentito di apprezzarne la frequenza e il peso assistenziale anche se non abbiamo ancora chiarezza sulla prevalenza nella popolazione e l’incidenza tra i pazienti con SC. Tali incertezze troveranno risoluzione attraverso studi e registri dedicati a pazienti con SCAv e consentiranno quindi una migliore stratificazione dei pazienti e definizione delle strategie terapeutiche efficaci. Il trapianto è destinato a una minima percentuale di pazienti per scarsità dei donatori, frequenza di controindicazioni e non risolte difficoltà organizzative. L’impianto di VAD potrà essere l’alternativa del prossimo futuro quando la tecnologia metterà a disposizione sistemi ancor più affidabili e consentirà l’alimentazione percutanea dei dispositivi, ma rimarrà comunque appannaggio di una percentuale non maggioritaria dei pazienti con SCAv per le comorbidità e controindicazioni inerenti alla procedura. Abbiamo la consapevolezza che una grande parte di pazienti rimarrà esclusa da procedute estreme e che per loro il nostro impegno dovrà ancora continuare.  


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