Anno Accademico 2020-2021

Vol. 65, n° 2, Aprile - Giugno 2021

Simposio: Gammopatia Monoclonale di Significato Incerto e Mieloma: novità di definizione, gestione e trattamento

26 gennaio 2021

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Il Mieloma Asintomatico: terapia o osservazione

T. Caravita Di Toritto

La prima descrizione di questa patologia risale al 1980, quando Kyle e Greipp pubblicarono una revisione della casistica di 334 pazienti con diagnosi di mieloma multiplo (MM), seguiti presso la Mayo Clinic, dove furono identificati 6 pazienti che soddisfacevano i criteri diagnostici per il MM senza averne il decorso aggressivo e rimanendo in assenza di sintomi per un periodo di almeno 5 anni. In analogia ad una precedente descrizione di un quadro di leucemia acuta in assenza di sintomi1, i ricercatori indicarono questi pazienti come affetti da una nuova entità nosologica che definirono “smoldering multiple myeloma” (SMM)2.

Quindi, nel 2003 furono pubblicati dall’International Myeloma Working Group (IMWG) i criteri per la classificazione delle gammopatie monoclonali, del MM e dei disordini correlati, tra cui lo SMM. Lo SMM veniva definito “mieloma asintomatico” (MA) e caratterizzato dalla presenza di una componente monoclonale sierica (CM) ≥ 3g/dL e/o la presenza di plasmacellule (PC) clonali ≥ 10%, in assenza di un danno d’organo, conseguenza della proliferazione plasmacellulare che si manifesta tipicamente con ipercalcemia, insufficienza renale, anemia e lesioni ossee (Tab. 1)3. Questa definizione fu successivamente confermata nelle raccomandazioni per la gestione dei pazienti con gammopatie monoclonali e SMM pubblicate nel 2010 dal IMWG, dove venivano discussi anche i fattori di rischio predittivi di progressione4.

Tab. 1: Criteri per la classificazione delle gammopatie monoclonali, del MM e dei disordini correlati: IMWG 20033.

Nel 2014, l’IMWG ha aggiornato i criteri diagnostici per il MM, con l’intento di riconoscere precocemente i pazienti che necessitano di una terapia senza aspettare il danno d’organo5. A tale scopo, sono stati individuati ed utilizzati dei biomarcatori di malignità (Tab. 2) che hanno permesso di identificare pazienti con un rischio di progressione entro due anni superiore all’80%. Pertanto, una quota di pazienti, precedentemente riconosciuta come MA, viene attualmente classificata come MM e sottoposta a terapia. Attualmente la diagnosi di MA si basa sulla presenza di una CM IgG o IgA ≥ 3 g/dL (≥ 0,5 g/dL se componente urinaria) e/o una quota di PC midollari del 10-60%, in assenza di sintomi specifici o amiloidosi.

Tab. 2: Nuovi criteri diagnostici per il mieloma, IMWG 20145.

Incidenza e prevalenza del MA nella popolazione generale non sono ben definite. In uno studio di Hveding Blimark et al., su un totale di 4.904 pazienti con nuova diagnosi di MM (NDMM), raccolti dal 2008 al 2015 dal registro svedese, sono stati riportati 916 (18,6%) MA utilizzando i criteri IMWG del 20036. In un altro studio pubblicato sulla prevalenza, incidenza e sopravvivenza dei pazienti con MA negli USA, che analizzava dati raccolti dal SEER dal 2003 al 2011, venivano riportati 86.327 MM totali, di cui 13,7% erano MA con un’età mediana alla diagnosi di 67 anni, un’incidenza annuale pari a 0,9 casi/100.000 persone ed una sopravvivenza mediana di 54,8 mesi7. Peraltro, considerando che lo SMM è una condizione asintomatica, è verosimile che questi numeri sottostimino la reale incidenza di questa patologia8.

Il MA è caratterizzato da un’ampia variabilità prognostica e per una corretta gestione del paziente è necessaria una valutazione del rischio di progressione in malattia sintomatica, attraverso l’uso di adeguati parametri predittivi che devono essere facilmente accessibili, eseguiti routinariamente, facilmente riproducibili e validati9.

A tutt’oggi non esistono parametri universalmente riconosciuti in grado di predire la progressione in malattia attiva. Il MA configura uno stadio intermedio tra gammopatie monoclonali di significato incerto (Monoclonal Gammopathy of Undetermined Significance, MGUS) e MM, con un rischio di progressione in malattia sintomatica di circa il 10% anno nei primi cinque anni e successivamente significativamente inferiore4. Il rischio di progressione tra i singoli pazienti è ampiamente variabile e pertanto l’identificazione di parametri prognostici affidabili risulta di cruciale importanza. Il rischio di progressione nel MA dipende dalla massa tumorale, come risulta dal livello della CM e della percentuale di PC midollari4, 10-14, e da numerosi altri fattori prognostici10, 12, 15-27. Sono stati costruiti numerosi modelli predittivi, sulla base dei vari fattori prognostici individuati, anche se fino ad ora i più studiati, e successivamente validati in uno studio clinico prospettico, sono quelli della Mayo Clinic e del gruppo spagnolo PETHEMA10, 20. Il modello della Mayo Clinic usa il livello della CM sierica e la plasmocitosi midollare. Queste due variabili sono state usate per classificare il MA in tre gruppi di rischio: 1) CM > 3 g/dL e plasmocitosi > 10%; 2) CM ≤3 g/dL e plasmocitosi > 10%; 3) CM > 3 g/dL e plasmocitosi ≤10%. La mediana del TP in mieloma sintomatico risulta significativamente differente nei tre gruppi (rispettivamente 2, 8 e 19 anni), mentre la probabilità di progressione a 15 anni è rispettivamente dell’87%, 70% e 39%. Il modello degli spagnoli usa due fattori di rischio in presenza di una plasmocitosi ≥ 10%: immunofenotipo aberrante > 95% delle PC clonali ed immunoparesi, definita come una riduzione ≥ 25% di almeno una delle immunoglobuline non coinvolte. Pazienti con entrambi i fattori di rischio avevano una mediana di 23 mesi alla progressione, rispetto a 73 mesi in presenza di un solo fattore di rischio e una mediana non ancora raggiunta in assenza di fattori di rischio. In uno studio randomizzato condotto dal gruppo spagnolo, i pazienti erano definiti come MA ad alto rischio se soddisfacevano sia i criteri della Mayo Clinic che quelli spagnoli28.  Questo studio dimostrava che i pazienti ad alto rischio, così definiti, avevano un tempo mediano alla progressione in malattia sintomatica di 24 mesi, confermando la validità di questi criteri. Entrambi gli studi indicavano che la probabilità di progressione del paziente identificato come a basso rischio era quasi equivalente a quella dei pazienti con MGUS (1% anno).

I modelli della Mayo Clinic e del Gruppo spagnolo hanno consentito di effettuare un’iniziale stratificazione di rischio che è stata migliorata utilizzando ulteriori fattori prognostici. Infatti, Dispenzieri e colleghi hanno dimostrato che il valore prognostico del modello della Mayo Clinic iniziale può essere perfezionato aggiungendo il test delle FLC come ulteriore variabile29. Nel 2013 è stato pubblicato uno studio prospettico che si proponeva di definire il grado di concordanza tra questi due modelli di rischio e che dimostrava un significativo grado di discrepanza tra i due modelli (concordanza 28,6%) nel classificare questi pazienti, sottolineando la necessità di sviluppare studi prospettici che validino l’uso di fattori di rischio attendibili individuati su basi molecolari e di imaging funzionale, per individuare correttamente pazienti da arruolare in trials clinici per la valutazione di un trattamento precoce30. Il dato dell’importanza delle FLC non è, peraltro, stato confermato in uno studio di ricercatori danesi che hanno proposto un nuovo modello di valutazione del rischio basato sullo studio delle seguenti variabili: CM> 3g/dL e immunoparesi12. Comunque, in questi ultimi anni sono stati sviluppati e proposti ulteriori modelli di rischio che incorporano nuove caratteristiche cliniche e biologiche12, 22, 24, 31, 32. I componenti di questi modelli non sono identici ed il rischio individuale di ogni paziente dovrebbe essere valutato sulla base di tutti i dati disponibili piuttosto che sull’uso di un singolo modello33. Esistono diversi modelli in grado di identificare una popolazione di pazienti con un rischio di progressione in malattia sintomatica a due anni ≥ 80% che, se validati, potrebbero essere considerati un criterio addizionale per iniziare un trattamento precoce (Tab. 3). Particolarmente efficaci e promettenti, sono quelli basati su di un modello di valutazione dinamico dei biomarcatori di malattia, in grado di distinguere un pattern evolutivo da uno non evolutivo24, 32, 34.

Recentemente l’IMWG ha pubblicato una proposta di modello di stratificazione del rischio per pazienti con MA, basato sullo studio delle caratteristiche di una popolazione di 1996 MA reclutati da 75 centri in 23 nazioni. Sono stati identificati ed utilizzati tre fattori indipendenti di progressione a 2 anni: una Componente Monoclonale sierica >2 g/dL (HR: 2.1), un FLC ratio delle catene coinvolte su quelle non coinvolte >20 (HR: 2.7) ed una plasmocitosi midollare >20% (HR: 2.4). Questo ha permesso di individuare tre categorie con aumentato rischio di progressione a 2 anni: 6% per basso rischio (38%; nessun fattore di rischio, HR: 1); 18% per il rischio intermedio (33%; 1 fattore; HR: 3.0) ed un 44% per alto rischio (29%; 2–3 fattori). Inoltre, l’aggiunta delle anormalità citogenetiche ((4;14), t(14;16), +1q, and/or del13q) all’analisi  ha permesso di raffinare la separazione in 4 gruppi (basso rischio 0, rischio intermedio basso 1, rischio intermedio 2, alto rischio ≥3 fattori di rischio) con un rischio di progressione a due anni rispettivamente del 6, 23, 46 e 63%. Questo modello di stratificazione del rischio, noto come 2/20/20, è largamente applicabile e permette di differenziare con precisione pazienti con MA a basso rischio che si comportano come MGUS da quelli con un alto rischio di progressione a due anni superiore al 50%36.

Tab. 3: Modelli di stratificazione del rischio di progressione nel Mieloma Asintomatico.

Allo stato attuale, i pazienti con diagnosi di MA dovrebbero essere classificati come:

  • pazienti a basso rischio di progressione, caratterizzati dall’assenza dei fattori ad alto rischio, che hanno una probabilità di progressione a 2 anni del 6% ed a 5 anni di circa l’8%. I pazienti di questo gruppo hanno un comportamento simile a quello dei pazienti con MGUS e dovrebbero essere seguiti annualmente;
  • pazienti a rischio intermedio che presentano solo alcuni dei fattori predittivi di evoluzione ad alto rischio. È verosimile ipotizzare che questi pazienti rappresentino i veri MA. Il loro tasso di progressione a 5 anni è del 42% e dovrebbero essere seguiti semestralmente, ad eccezione del primo anno quando è raccomandato un controllo ogni 2-3 mesi per escludere un pattern evolutivo;
  • pazienti ad alto rischio, sulla base di uno dei modelli di rischio discussi precedentemente, dei quali circa la metà, potenzialmente, evolve entro due anni dalla diagnosi. Questi pazienti necessitano di un’osservazione clinica a tempo indefinito particolarmente attenta (ogni 2-3 mesi) e, anche se al momento non hanno indicazione ad un trattamento precoce, preferibilmente, dovrebbero essere seguiti da Centri in grado di discutere la possibilità di una terapia nell’ambito di uno studio clinico8, 33, 36.

Il MA è una patologia altamente eterogenea, dove si può avere un andamento clinico indolente sovrapponibile a quello dei pazienti con MGUS che richiede la sola osservazione clinica o una malattia ad elevato rischio di progressione che può essere considerata come “early myeloma” e per la quale è giustificato valutare un trattamento precoce.

L’attuale raccomandazione clinica di non intervento terapeutico si basa sulla carenza di dati che dimostrino un beneficio clinico della terapia precoce in termini di progressione libera da malattia (PFS), sopravvivenza globale (OS) e qualità della vita (QoL), sull’osservazione che molti pazienti possono rimanere senza terapia per molti anni e sul potenziale rischio di selezionare cloni resistenti. Gli studi che hanno supportato queste considerazioni si basano sull’impiego di agenti alchilanti, zolendronato e talidomide. La mancanza di un evidente beneficio in questi primi studi clinici, può essere spiegata da un arruolamento non selettivo della popolazione da trattare e dalla limitata efficacia e scarsa tollerabilità dei farmaci utilizzati37-44.

Nel 2013 uno studio condotto e pubblicato da Mateos et al. ha segnato la svolta nella gestione clinica dei pazienti con MA. Gli Autori riportavano i dati su 119 pazienti con diagnosi di MA ad alto rischio analizzati in uno studio randomizzato di fase 3, che valutava un intervento terapeutico con lenalidomide in associazione al desametazone (len-dex) verso la sola osservazione28. I pazienti del braccio di trattamento ricevevano 9 cicli di induzione con lenalidomide 25 mg/die per 21 giorni e desametazone 20 mg/die nei giorni 1-4 e 12-15, seguiti da 15 cicli di lenalidomide come singolo agente alla dose di 10 mg/die per 21 giorni. La popolazione ad alto rischio veniva definita secondo i criteri del gruppo spagnolo. L’end point primario era rappresentato dal Tempo alla Progressione (TP) in mieloma sintomatico e dopo una mediana di 40 mesi, il TP mediano era significativamente più lungo nei pazienti del braccio len-dex (mediana non raggiunta vs 21 mesi; HR 5,59; p < 0,001) insieme ad una migliore OS a 3 anni (94% vs 80%; HR = 3,24; p < 0,03). Questo trial è stato successivamente aggiornato e dopo un follow up (FUP) mediano di 75 mesi, il braccio len- dex continuava a mostrare un beneficio in TP (mediana non raggiunta vs 23 mesi; HR 0,24; IC 95%, 0,14-0,41; p < 0,0001)45. Il profilo di sicurezza è stato accettabile e la maggior parte degli eventi avversi era di grado 1-2. I limiti maggiori di questo studio sono rappresentati dai criteri utilizzati per la definizione dello MA ad alto rischio, dal mancato impiego delle nuove metodiche radiologiche, che potrebbero aver sottorappresentato la popolazione ad alto rischio, e dalla differente gestione delle progressioni biochimiche nei due bracci che potrebbe spiegare un rilievo inaspettato di decessi nel braccio di controllo9, 46-48.

Comunque, successivamente, il Eastern Cooperative Oncology Group (ECOG) ha condotto uno studio randomizzato (E3A06) con la lenalidomide come singolo agente versus osservazione in pazienti con MA.  La lenalidomide veniva somministrata a 25 mg die per 21 giorni in cicli di 28 giorni e l’obiettivo principale era la PFS. Nello studio sono stati arruolati complessivamente 182 pazienti e con un FUP mediano di 35 mesi la PFS era significativamente più lunga nel braccio lenalidomide (hazard ratio, 0.28; 95% CI, 0.12 to 0.62; P = .002). La PFS ad 1, 2 e 3 anni era rispettivamente 98%, 93%, and 91% per il braccio di trattamento contro 89%, 76%, and 66% per quello di osservazione. Una tossicità non ematologica di grado ¾ è stata registrata nel 28% dei pazienti in trattamento con lenalidomide. Le conclusioni degli autori di questo studio sono state che la terapia con lenalidomide nel MA ritarda in maniera significativa la progressione verso una forma sintomatica e lo svilupparsi di un danno d’organo49.

Il MM, sintomatico ed asintomatico, è caratterizzato da alti livelli di eterogeneità clonale5051 ed una terapia di associazione con tre farmaci, comprendenti un farmaco immunomodulante ed un inibitore del proteasoma, si è dimostrata capace di ridurre significativamente la massa tumorale in pazienti con NDMM52, 53, nonostante la eterogeneità intra clonale54.        

Recentemente sono stati pubblicati i dati di uno studio pilota condotto dal National Institute of Health Clinical Center che valutava l’associazione carlfizomib, lenalidomide e desametazone (KRd), seguita da lenalidomide in mantenimento, in 45 pazienti con NDMM e 12 MA ad alto rischio, arruolati tra luglio 2011 ed ottobre 2013. I pazienti erano classificati come MA ad alto rischio in accordo ai criteri PETHEMA e nessuno aveva lesioni litiche rilevate secondo radiografia tradizionale e PET/TC. Il FUP mediano per i pazienti con MA era di 15,9 mesi e 11 pazienti completavano gli 8 cicli previsti di KRd e successivamente ricevevano la terapia di mantenimento con lenalidomide per due anni. Undici pazienti continuavano a ricevere il trattamento programmato senza evidenza di progressione, un paziente sospendeva la terapia per l’insorgenza di insufficienza cardiaca congestiva. Le risposte più profonde erano osservate nei pazienti con MA, con un tasso di remissione completa del 100% contro il 62% di quanto registrato negli NDMM55, e una sostenuta negatività della malattia residua per oltre 4 anni nel 63% dei casi56. La tossicità registrata era prevalentemente ematologica (linfopenia e piastrinopenia) e gastrointestinale; venivano inoltre riportati due tumori della pelle nel FUP di questi pazienti. Infine, in questo trial, sono stati condotti studi biologici (exome sequencing and RNA sequencing) che hanno dimostrato un diverso profilo molecolare tra il MA ad alto rischio e il NDMM. Pertanto, l’insieme dei dati clinici e biologici descritti in questo studio supporta l’ipotesi di una biologia dei MA ad alto rischio più responsiva al trattamento rispetto a quella degli NDMM, fornendo le basi per programmare studi più ampi con regimi terapeutici in grado di ottenere risposte profonde e durature in questi pazienti. Le sempre maggiori conoscenze biologiche sui meccanismi patogenetici della progressione tumorale nelle discrasie plasmacellulari, hanno permesso di sviluppare terapie sempre più mirate anche verso potenziali pathway di progressione. Uno studio condotto dal Lust e colleghi ha valutato l’associazione di un antagonista per il recettore dell’IL-1 (anakinra), più o meno desametazone, in pazienti con MA57, 58.

L’introduzione degli anticorpi monoclonali nell’armamentario terapeutico per la gestione dei pazienti con MM, ha fornito le basi per un nuovo approccio al trattamento di questi pazienti e, in considerazione dell’efficacia e della sicurezza, ha indotto a pianificare studi nel trattamento precoce di questa malattia e quindi anche in pazienti con diagnosi di MA ad alto rischio59-61.

I risultati pubblicati di uno studio di fase 2, condotto su una popolazione con MA ad alto rischio, per valutare elotuzumab in monoterapia non sono stati particolarmente positivi62. È in valutazione uno studio di combinazione con elotuzumab, lenalidomide e desametazone in pazienti con SMM con risultati preliminari incoraggianti in termini di ORR e profilo di sicurezza63.

Sono stati recentemente riportati i dati preliminari di uno studio clinico randomizzato che si propone di valutare tre diverse posologie di daratumumab in monoterapia (prolungata, intermedia e corta) su pazienti con MA a rischio medio-alto. I risultati dello studio hanno indicato che daratumumab era generalmente ben tollerato, con un profilo di sicurezza paragonabile a daratumumab nel trattamento del mieloma multiplo recidivato/refrattario. Con un follow up mediano di 15,8 mesi (range, 0,0-23,9), sono stati riportati dei risultati migliori nel braccio di terapia prolungato rispetto al braccio intermedio e corto, con una ORR rispettivamente del 56%, 54% e 38% e una PFS a 12 mesi del 95%, 88% e 81%64.

Allo stato attuale sono allo studio altri trattamenti innovativi nel setting di pazienti con MA che utilizzano anticorpi monoclonali, da soli o in combinazione, inibitori dei check point immunologici ed altri farmaci di nuova generazione in strategie più o meno complesse, con il tentativo di ritardare o prevenire la progressione del mieloma65.

Attualmente, nell’ambito degli studi clinici per il trattamento dei pazienti con MA ad alto rischio, è possibile individuare due differenti approcci:

  • un approccio più gentile che mira a ritardare l’eventuale progressione e si basa fondamentalmente su principi di immunoterapia, utilizzando prevalentemente anticorpi monoclonali (elotuzumab, daratumumab ed altri) in monoterapia o in associazione con lenalidomide e desametazone62-64;
  • un approccio aggressivo con l’intento di prevenire l’evoluzione in malattia attiva e perfino di curare il paziente, eradicando il clone maligno. Questa è la strategia impiegata in programmi terapeutici impegnativi che prevedono lo stesso schema di terapia utilizzato per i pazienti con mieloma attivo di nuova diagnosi eleggibili per una procedura trapiantologica, come negli studi CESAR (Curative Estrategia Smouldering Alta Riesgo) condotto dal PETHEMA66 e nel ASCENT (Aggressive Smoldering Curative Approach Evaluating Novel Therapies) sponsorizzato dal International Myeloma Foundation/Black Swan Research65. Pertanto, le attuali raccomandazioni per la gestione di pazienti con diagnosi di MA prevedono una stratificazione del rischio di progressione per un’adeguata programmazione delle tempistiche dei controlli ematologici, più o meno ravvicinati, a seconda che il paziente presenti delle caratteristiche biologiche tipo early myeloma o tipo gammopatia monoclonale. Per poter escludere un pattern di malattia evolutivo, si raccomanda nel primo anno dalla diagnosi un controllo ematologico ogni 2-3 mesi. Successivamente, i controlli verranno programmati sulla base delle caratteristiche di rischio: annuale per pazienti a basso rischio, equiparabili ad una gammopatia monoclonale, annuale; bimestrali per ulteriori 5 anni e successivamente annuali per i rischi intermedi; ogni 2-3 mesi per quelli ad alto rischio9, 8, 33.

Il work up diagnostico del paziente con SMM deve essere lo stesso previsto per il MM, in considerazione della necessità di escludere una condizione di altissimo rischio che necessita di immediato trattamento (Tab. 4).

Al di fuori degli studi clinici, non è prevista nessuna terapia per i pazienti con diagnosi di SMM, anche se la raccomandazione è di avviare i pazienti classificati come SMM HR in centri specializzati che li possano seguire in maniera completa, eventualmente discutendo un arruolamento in studi clinici.

Tab. 4: Work up diagnostico per i pazienti con sospetto di MA.


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