Dott.ssa Gabriella Lucchi

Angiologia Medica, Centro Malattie Vascolari J. F. Merlen, Frosinone

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2018-2019

Vol. 63, n° 2, Aprile - Giugno 2019

ECM: Novità in tema di malattia venosa cronica (MVC) degli arti inferiori

12 marzo 2019

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Malattia venosa cronica: come si manifesta e con quali meccanismi

F. Pomella, P. Mollo, G. Guarnera, L. Guarnera, S. Bilancini, M. Lucchi, G. Lucchi, S. Tucci

La Malattia Venosa Cronica (M.V.C.) costituisce una condizione clinica assai rilevante sia sotto il profilo epidemiologico sia per le importanti ripercussioni socio-economiche che ne derivano. Mostra una prevalenza variabile tra il 10-50% nella   popolazione adulta maschile e tra il 50-55% in quella femminile. Colpisce prevalentemente il sesso femminile fino alla quinta-sesta decade di vita, non mostrando successivamente differenze significative tra i due sessi (rapporto uomo-donna 1:2-3).

Con questo lavoro gli autori, dopo aver definito la malattia venosa cronica e aver delineato  le distinzioni terminologiche delle diverse manifestazioni cliniche, illustrano la classificazione CEAP basata sui quattro parametri clinico eziologico, anatomico e fisiopatologico,  e descrivono i diversi quadri clinici della malattia venosa cronica stessa1.

È opportuna in premessa una corretta diversificazione terminologica per definire la patologia, sia per precisarne i diversi livelli di gravità sia sotto il profilo anatomopatologico e fisiopatologico, che per una più corretta valutazione nelle stime. Appare del tutto condivisibile la proposta adottata con il VEIN-TERM transatlantic interdisciplinary consensus  document  che diversifica dal punto di vista terminologico i diversi livelli nosografici:

Malattia venosa cronica: ogni alterazione  morfologica e funzionale del sistema venoso di lunga durata ed espresso da sintomi e segni che suggeriscano la necessità di  indagini e cure;

Disturbi e/o disordini  venosi cronici (secondo il significato anglosassone del termine disorders che si presta a differenti traduzioni). Questo termine comprende un ambito molto ampio di anomalie morfo-funzionali del sistema venoso;

Insufficienza venosa cronica (IVC): definizione nosografica da destinare alle forme più avanzate della M.V.C. che deve essere riservata alle anormalità funzionali del sistema venoso tali da generare edema, alterazioni cutanee discromico-distrofiche fino alla comparsa di  lesioni ulcerative  (classi  da C3 a C6 della classificazione CEAP).

La M.V.C.  può correlare o  con le sequele di una flebotrombosi profonda (M.V.C. da S.P.F.) o con quelle di una flebopatia varicosa (M.V.C. da flebopatia varicosa tronculare, reticolare o mista)  ovvero  con quelle di entrambi i quadri (M.V.C. da  S.P.F. e flebopatia varicosa).

Il primum movens fisiopatologico risulta rappresentato dall’ipertensione del versante macrocircolatorio venoso che si riverbera sull’unità microcircolatoria con severo danno istangico di quest’ultima,  così come sintetizzato nelle immagini schematiche seguenti.

 

        

 

 

 

 

 

 

 


            

 

La sindrome post-trombotica (SPT) rappresenta la sequela più frequente e invalidante della malattia tromboembolica venosa, sovente inevitabile anche in presenza  di un tempestivo e razionale trattamento dell’evento ostruttivo acuto. Il rischio “evolutivo” verso la SPT è pertanto elevato: dati in letteratura calcolano dal 20 al 40 la percentuale dei pazienti con storia di TEV che, con la latenza tipica anche di molti anni (variabile da 2 a 8), sviluppa tale quadro nosografico.

La SPT si caratterizza non soltanto per le manifestazioni cliniche peculiari di ogni fase della sua stadiazione, ma anche per il negativo impatto sulla qualità della vita (peggiore rispetto a molti quadri cronico-degenerativi come le artropatie e la BPCO o dismetabolici multifattoriali come la malattia diabetica) o compromettendola al pari di patologie ben più rilevanti dal punto di vista  prognostico  come le neoplasie, la cardiopatia ischemica e l’insufficienza cardiaca  congestizia.

Come già argomentato, la molteplicità dei sintomi e dei segni del tutto aspecifici, soprattutto nelle fasi di esordio dei quadri clinici riconducibili alla M.V.C., rendono estremamente difficile una identificazione certa e corretta proprio in ragione dello spettro relativamente ampio delle manifestazioni cliniche stesse.

Dal punto di vista sintomatologico, il corteo risulta estremamente variabile: il paziente riferisce infatti senso di pesantezza e tensione a carico dell’arto interessato dalla patologia varicosa e/o post ostruttiva, parestesie a tipo formicolio, prurito, crampi con peggioramento in ortostatismo e attenuazione in ortodinamismo fino a scomparsa con il riposo e il sollevamento dell’arto (la SPT può essere definita anche come sindrome da ipertensione venosa “discontinua”, essendo le variazioni del regime pressorio venoso correlate alla postura e all’ortodinamismo) (Fig. 3).

Gli elementi obiettivi della MVC sono rappresentati quindi da edema, varici primitive (in caso di insufficienza primaria) o secondarie (nel caso trattasi di SPT) e alterazioni cutanee discromiche e distrofiche. Gli elementi sintomatologici “soggettivi” rappresentati dalle parestesie, dalla tensione e pesantezza d’arto e dal dolore sono componenti sindromici relativamente frequenti e sovente aspecifici. Sono proprio le alterazioni obiettive innanzi descritte che  esprimono lo stato di gravità della patologia in quanto il paziente può progredire dalle piccole varicosità secondarie, di scarso rilievo, alla lipodermatosclerosi (Fig. 4), all’eczema da stasi e all’atrofia bianca fino alle lesioni ulcerative espressione dello “sfacelo” cutaneo per danno severo dell’unità microcircolatoria. Le lesioni ulcerative, pur rappresentando l’espressione evidente dello “sfacelo” cutaneo correlato alle gravi alterazioni della unità micro-vasculotessutali indotte dalla condizione emodinamica stasi-ipertensione, non rappresentano tuttavia l’unica alterazione cutanea della insufficienza venosa cronica. Vengono infatti esaminati di seguito gli altri quadri dicoinvolgimento cutaneo rappresentati dalla lipodermatosclerosi, dall’eczema  da stasi e dall’atrofia bianca.

 

Lipodermatosclerosi. La lipodermatosclerosi (LDS) è un quadro clinico con cui si identifica una lesione cutanea indurativa, sclerotica e iperpigmentata a carico di una gamba. È espressione di ripetuti stravasi eritrocitari interstiziali indotti dalla stasi-ipertensione, con successiva degradazione dell’emoglobina e formazione di emosiderina. La componente pigmentaria prelude e precede la comparsa della lipodermatosclerosi  propriamente detta.

Trattasi di un processo discromico-ipodermitico da distinguere da tutte le ipodermiti primitivamente “dermatologiche che non riguardano la flebologia e non risultano correlate  a meccanismi di ordine flebostatico”.  È stata proposta la distinzione in due forme cliniche: una acuta, caratterizzata dalla presenza di una area eritematosa, tesa, calda, molto dolente, in sede sopramalleolare interna, e una cronica che si manifesta a distanza di mesi o anche di anni e che si identifica in una fibrosi o sclerosi estesa con demarcazione sfumata2.

Nelle forme più gravi la pelle assume un aspetto marcatamente distrofico, madreperlaceo, teso, assottigliato, disseminato di aree purpuriche di estensione variabile che circondano zone di atrofia bianca soggetta a micro-ulcerazioni, iperalgiche che  precedono la comparsa di vere e proprie lesioni ulcerative (Fig. 4).Sovente l’atrofia non riguarda soltanto i piani cutanei ma interessa anche quelli più profondi a livello della porzione sovramalleolare, con  espressione obiettiva   “a manicotto”  che contrastando con l’edema del III medio e del III  superiore, conferisce alla gamba l’aspetto  definito “a fiasco rovesciato”.

Eczema da stasi. Affezione costantemente pruriginosa che può evolvere in forme intensamente  trasudanti, desquamanti, screpolate (eczema “craquelé”), complicate da lesioni da “grattamento” e aggravate da  sensibilizzazioni a terapie topiche, sovente evolventi con irregolare cronologia e frequenti riacutizzazioni, verso cronicità in paracheratosi e dermatosi secche in forme squamose o lamellari (Fig. 5). La notevole frequenza della associazione di manifestazioni cutanee eczematose sugli arti di soggetti  con patologia varicosa o post-ostruttiva venosa, rende ragione della attribuzione della paternità del quadro cutaneo alla stasi venosa3. In taluni casi il prurito può diventare intensissimo, fortemente afflittivo ed estendersi a zone cutanee distanti dall’arto  flebopatico. In fase acuta prevalgono i fenomeni dermo-epidermici quali l’eritema, l’edema distrettuale, la formazione di piccole vescicole che rompendosi e confluendo tra loro,   possono dar luogo ad un gemizio più o meno significativo fino ad una vera e propria “colatura” sierosa da un’area di “disepidermizzazione”. In fase subacuta, pur in presenza di una regressione dei fenomeni infiammatori, si osserva una persistenza di lesioni eritemato-squamose con secrezione ridotta, ma pur sempre pruriginose. L’evoluzione verso la fase di cronicità si caratterizza per fenomeni di paracheratosi con evoluzione verso quadri di dermatosi secca, desquamante, lamellare con aspetti psoriasiformi. Va sottolineato che mentre la gran parte di questi quadri eczematosi rimane localizzata all’arto flebopatico, sovente è possibile osservare la comparsa di prurito, eritema ed eczematizzazione in altre aree cutanee non contigue o distanti come collo, torace e viso (fenomeno di Koebner). Dal punto di vista etiopatogenetico, esclusi i rari casi di pazienti atopici o con precedenti sensibilizzazioni che per mera coincidenza sono anche flebopatici, l’eczema da stasi appare determinato da sensibilizzazioni allergiche a trattamenti topici e/o a germi microbici o micotici favorite da  cute fragile, secca, gravata da lesioni da grattamento ripetuto o da macerazioni cutanee secondarie a medicazioni inappropriate di lesioni ulcerative.

Il trattamento dell’eczema varicoso, nel rispetto della fisiopatologia, dovrà pertanto essere bivalente, orientato cioè in direzione sia flebologica che dermatologica, mirando alla correzione della stasi-ipertensione e alla eliminazione del processo di sensibilizzazione allergica che ha determinato la  comparsa dell’eczema. Sempre utile una antisepsi cutanea non aggressiva e scarsamente istolesiva. In presenza di  natura infettiva  clinicamente sospetta dell’eczema, può trovare indicazione un trattamento antibiotico sistemico  da  adottare  sempre con le abituali cautele.

La diagnosi differenziale va posta nei confronti dell’ectima, infezione batterica che   determina lesioni cutanee multiple, a stampo, con margini netti, purulente frequentemente insorgenti in soggetti defedati che vivono in precarie condizioni igieniche e nelle quali una MVC può essere fattore favorente o determinante.

Atrofia bianca. Trattasi di lesione cutanea extrafasciale a tendenza ulcerativa. Descritta per la prima volta da Milian nel 1929, definita “atrophie blanche” dagli Autori francesi, inizialmente veniva correlata alla lue e alla tubercolosi4.

L’atrofia bianca appare sotto forma di chiazze biancastre o di color avorio talora madreperlaceo, leggermente depresse sul piano cutaneo e di grandezza variabile da una capocchia di spillo ad una moneta. Queste chiazze hanno forma solitamente rotondeggiante od ovalare ma possono apparire anche di forma irregolare e nella gran parte dei casi con limiti non netti e scarsamente demarcati. Inizialmente poco estesa, la lesione tende a confluire in chiazze irregolarmente delimitate, nelle quali restano incluse  isole di tessuto cutaneo relativamente sane, con capillari giganti che emergono come teste di spillo nei settori “malati”.  Nella gran parte dei casi l’atrofia bianca si iscrive sul terreno distrofico-discromico proprio della dermo-ipodermite siderinica, conosciuta anche come  “dermatite ocra ”. Spesso associata sia a quadri severi di lipodermatosclerosi sia a lesioni ulcerative flebostatiche, può precedere anche di anni la complicanza ulcerativa. Sedi elettive sono le porzioni distali della gamba, con predilezione delle superfici mediali segnatamente per la regione malleolare e sottomalleolare (Fig. 6). Si riscontra più frequentemente nelle donne che negli uomini, quasi esclusivamente in gambe affette da   grave IVC. Appare soprattutto nell’età media e avanzata, nelle quali tale quadro è più frequente. Trattasi di una “vasculosi” con densità capillarenestremamente ridotta e   marcata, conseguente riduzione di tensione tessutale di O2.

Macroscopicamente si rileva una atrofia cutanea di notevole grado, solitamente su area di dermo-ipodermite siderinica  in cui spiccano piccole chiazze depigmentate, spesso depresse nel territorio di distribuzione di una “unità angiosferica di rifornimento”. L’epidermide è notevolmente assottigliata, sovente ridotta a pochi strati di cellule. L’assottigliamento riguarda prevalentemente il corpo papillare con una contemporanea distensione edematosa e con   rottura e rarefazione di fibre elastiche, con progressivo depauperamento vascolare fino alla completa desertificazione. Evidenti all’esame clinico le manifestazioni distrofiche a carico della cute e degli annessi cutanei. Fisiopatologicamente correla con il meccanismo stasi-ipertensione in periferia, con dilatazione venulare e formazione di “glomeruli capillari” e con contemporanee costrizione e microtrombosi del corrispondente versante afferente.

Si può certamente concordare con l’ipotesi di Glauco Bassi che individua in un “processo microemodinamico” il meccanismo fisiopatologico alla base dell’alterazione cutanea. La condizione stasi-ipertensione in periferia induce una dilatazione di piccole vene e porta alla formazione di circoscritti glomeruli capillari la cui porzione afferente, in particolare le arteriole del compartimento cute-sottocute, va incontro a fenomeni di  restringimento e di spasmo (forse quale meccanismo di regolazione circolatoria). Il depauperamento e la desertificazione capillare e l’aumentata omogenizzazione del connettivo determinano la decolorazione “biancastra” della chiazza, mentre i puntini rossi corrispondono ai circoscritti glomeruli capillari. Lo spasmo  dei piccoli vasi afferenti, quando risulta prolungato e severo, porta inevitabilmente all’ulcerazione dell’area di “rifornimento”. Si tratta dunque, in ultima analisi, di “ulcere arteriose impiantate su di una alterazione della circolazione venosa (G. Bassi, 1986)”5.

La conferma  di questa affermazione di Glauco Bassi viene dal laboratorio: le misurazioni transcutanee della pressione parziale di 02 forniscono valori estremamente bassi, espressione della cattiva perfusione distrettuale. Le ulcere, piccole all’esordio, se non curate, possono ingrandirsi molto rapidamente fino ai limiti dell’area atrofica, sia in estensione che in profondità.

La peculiarità clinica di queste ulcerazioni è la sintomaticità dolorosa. Lesioni anche minime sono caratterizzate da dolori straordinariamente intensi e resistenti alla terapia. Nelle ore notturne questi dolori possono diventare intollerabili indipendentemente dalla grandezza della lesione.

Il bendaggio compressivo è mal sopportato, per cui è consigliabile procedere con compressioni crescenti per indurre tollerabilità e abitudine. Contro ogni aspettativa, sotto  tali  bendaggi può regredire anche l’atrofia non ancora ulcerata. La diagnosi differenziale va posta con la  pseudo-atrofia bianca e con l’eczema varicoso. La vera atrofia bianca va sempre distinta da cicatrici o da depigmentazione su varici o su siderosclerosi (la cosiddetta “pseudo-atrofia bianca”).

Ulcera venosa. Rappresenta la manifestazione clinica finale e più grave e invalidante dell’insufficienza venosa cronica. Con il progredire della stasi venosa e la riduzione dello shear stress (cioè la forza tangenziale imposta dallo scorrere del sangue sulla superficie endoteliale), le cellule del sangue tendono ad aggregarsi e i leucociti si pongono all’esterno della massa cellulare interagendo con le cellule endoteliali attraverso molecole di adesione. Questo legame promuove la stabile adesione dei leucociti, l’inizio della loro degranulazione e la diapedesi con migrazione attraverso l’endotelio nello spazio interstiziale. La degranulazione dei leucociti comporta il rilascio di metalloproteasi che hanno una azione destabilizzante sulla matrice extracellulare e innescano i processi che portano alla distruzione tessutale e alla comparsa dell’ulcera.

Dal punto di vista clinico, la forma delle ulcere venose è in genere rotondeggiante o ovalare, comunque irregolare; talvolta può assumere aspetti bizzarri. La grandezza è estremamente variabile, da pochi millimetri  a forme fagedeniche, così come il numero (le ulcere venose sono di solito uniche, ma possono essere anche multiple, confluenti). I bordi sono irregolari e frastagliati, spesso callosi. Si estendono raramente in profondità sino alla fascia muscolare o al piano osseo. Il fondo può essere granuleggiante o fibrinoso, raramente necrotico. Nelle ulcere estese di vecchia data si possono rinvenire sul fondo microcalcificazioni (Fig. 7)2.        

Conclusione. La diagnosi di M.V.C. si basa sostanzialmente sulla clinica delle manifestazioni obiettive e su una anamnesi accurata. La peculiarità dei quadri clinici rilevabili nelle diverse stadi azioni CEAP consente una buona appropriatezza dell’indirizzo  diagnostico che sarà confermato con le manovre della semeiologia classica di “attivazione” del sistema venoso eseguite sia in clino- che in ortostatismo e dagli esami strumentali  ad ultrasuoni.


BIBLIOGRAFIA

  1. Mollo P.E. Lo score clinico. In: La Sindrome post trombotica. Flebologia Oggi (Ed. Minerva Medica) 2016; 3: 27-34.
  2. Guarnera G.  Ulcere vascolari degli arti inferiori. Torino: Minerva Medica, 2015
  3. Chatard H. Note sur la généralisation d’un eczéma de jambe. Phlébologie 1979; 32: 347.
  4. Milian G. Les atrophies cutanées syphilitiques. Bull Soc Fran Derm  Syph 1929; 36: 865.
  5. Bassi G. Compendio di terapia flebologica. Torino: Minerva Medica, 1986.