Dott.ssa Federica Pomella

Servizi Ambulatoriali Specialistici, Branca Angiologia, ASL  Frosinone

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2017-2018

Vol. 62, n° 4, Ottobre - Dicembre 2018

Simposio: Ulcere vascolari degli arti inferiori

29 maggio 2018

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Ulcere vascolari degli arti inferiori. Approccio clinico e terapia medica

P. Mollo, F. Pomella, M. Lucchi, S. Bilancini, G. Guarnera

L’ulcera vascolare è una lesione ad andamento cronico, caratterizzata da perdita di sostanza cutanea che non tende a guarigione spontanea, poiché nella gran parte dei casi è sostenuta da una alterazione circolatoria di base (macro- e/o micro-circolatoria,  ischemica, flebostatica, mista, linfostatica) tale da compromettere la perfusione, la diffusione e lo scambio dell’ossigeno e dei nutrienti ai tessuti. Le lesioni ulcerative a genesi vascolare costituiscono quadri nosografici di grande rilevanza sotto il profilo medico-sociale per gli elevati costi, per la loro significatività dal punto di vista epidemiologico e per la perdita di giornate lavorative che determinano sia per il paziente che per i familiari e, più in generale, per il personale di assistenza. Secondo una classificazione eziologica di  Guarnera e Papi, vanno distinte le ulcere da danno primitivo delle strutture vascolari, che comprendono le ulcere venose (70-80%), quelle arteriose (15-25%), le miste, le microangiopatiche (infiammatorie, vasocclusive), dalle ulcere da danno secondario delle strutture vascolari (ulcere da pressione e da cause fisico-chimiche, ulcere infettive, metaboliche, ematologiche, neoplastiche, da deficit della pompa muscolare)1. Un recente studio italiano su larga scala indica per le ulcere venose una percentuale di incidenza del 55% (Apollonio A., Antignani PL, Di Salvo M.M. e coll. 2014). Secondo Baker e coll. (1992) le percentuali in rapporto alle diverse eziologie su una casistica complessiva di 239 lesioni ulcerative, sono risultate così ripartite: 160 (67%) da insufficienza venosa cronica, 66 (28%) da deficit perfusivo arterioso e 35 (15%) ascrivibili a genesi mista artero-venosa.

 

Ulcere arteriose: caratteristiche cliniche

 

           

 

Si presentano come lesioni eritemato-cianotiche a margini netti, spesso multiple, tendenti ad approfondire, con cute perilesionale distrofica e necrosi puntiformi marginali. Prediligono sede acrale, periungueale, salienze ossee più esposte a traumi, quali malleolo, calcagno, teste metatarsali. Hanno forma regolare e, all'esordio, piccole dimensioni con progressivo aumento dell’estensione. Molto dolenti, soprattutto in clinostatismo (dolore notturno), sovente alleviato dalla posizione ortostatica. La presenza di lesioni cutanee su base ipoperfusiva arteriosa (IV stadio della classificazione di Lériche e Fontaine –III grado, categoria 5-6  della classificazione Rutherford, 1997) coincide  sostanzialmente con il quadro della ischemia critica cronica d’arto.

Con la definizione di ischemia critica degli arti inferiori (ICAI) si indica il quadro clinico caratterizzato da dolore a riposo e/o lesioni trofiche di diverso grado ed estensione  quali ulcere e/o gangrene, insorte da oltre quindici giorni, secondarie ad arteriopatia a evoluzione obliterante e sul piano emodinamico dai rilievi pressori sistolici < 50 mmHg alla caviglia e < 30 mmHg all’alluce. Sotto il profilo microcircolatorio si caratterizza per la riduzione distrettuale della tensione transcutanea di ossigeno (< 30 mmHg) a livello dell’avampiede interessato.

Sul piano clinico la diagnosi di ischemia critica deve essere sospettata in presenza dei seguenti sintomi o segni: a) dolore a riposo a carico degli arti inferiori prevalentemente notturno ovvero in clinostatismo che dura da oltre 15 giorni e che esige un trattamento analgesico; b) lesioni cutanee parcellari acrali; c) lesioni cutanee estese o gangrena.

A tale classificazione “ufficiale” molti esperti ritengono opportuno aggiungere anche il quadro della claudicazione severa, intendendo con tale aggettivazione un intervallo di marcia libera di pochi passi. Trattasi di una definizione che riunisce diverse stadiazioni cliniche che correlano ad un elevato rischio di amputazione e di morte, criticità che caratterizzano anche il quadro della claudicazione severa. L’incidenza della ischemia critica d’arto è in Europa di circa 450 casi/milione di abitanti con un rischio relativo di  amputazione del 50% nei pazienti non rivascolarizzati e del 26% nei soggetti sottoposti a trattamenti di rivascolarizzazione diretta o indiretta, mentre il rischio relativo di morte è rispettivamente del 50 % e del 18%. Com’è noto gli interventi demolitivi d’arto sono gravati da una prognosi molto sfavorevole: circa il 30% del pazienti decede entro i dodici mesi successivi, mentre un altro 30% raggiunge una parziale autosufficienza e solo il restante 30% realizza una condizione di totale autonomia ed autosufficienza.

In presenza di diagnosi certa di ischemia critica il paziente deve essere indirizzato, senza ulteriori indugi, in strutture dedicate di Chirurgia Vascolare. Il percorso terapeutico, infatti, esige in primo luogo un intervento di rivascolarizzazione diretta tradizionale o endovascolare, seguito da un trattamento farmacologico teso a garantire la pervietà del o dei by-pass. Se i rilievi angiografici risultano sfavorevoli per una soluzione chirurgica, l’opzione è per un trattamento farmacologico intensivo in strutture ospedaliere dedicate al trattamento delle malattie cardiovascolari, al fine di assicurare al paziente le migliori possibilità di successo. Nonostante l’ormai nota e dimostrata comorbilità tra l’arteriopatia obliterante cronica periferica da una parte e la cardiopatia ischemica e/o malattia cerebro-vascolare dall’altra, non appare giustificata né tanto meno comprensibile l’erronea quanto consolidata tendenza di molti medici a trattare i fattori di rischio cardiovascolare dell’AOCP meno intensivamente di quanto facciano in presenza di cardiopatia ischemica.                 

Attualmente il trattamento farmacologico del paziente con ischemia critica non passibile di rivascolarizzazione chirurgica prevede dunque l’utilizzo di diversi medicamenti che possono essere raggruppati in tre gruppi: 1) farmaci convenzionali diversi dai prostanoidi; 2) prostanoidi; 3) terapia genica e con cellule staminali.

Farmaci convenzionali. Il gruppo dei farmaci convenzionali non ascrivibili alla categoria dei prostanoidi comprende gli antiaggreganti piastrinici, gli anticoagulanti, i  fibrinolitici, gli emoreologici vasoattivi. Tra gli antiaggreganti, di cui è noto il meccanismo d’azione sulla prevenzione del danno endoteliale conseguente alla aggregazione piastrinica,  vanno citati, l’aspirina, la ticlopidina, il clopidogrel, l’indobufene.  L’efficacia di tali medicamenti è stata dimostrata in pazienti con claudicazione severa sulla protezione  cardiovascolare delle complicanze. In particolare l’azione positiva di ASA e Ticlopidina  nella riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori (IMA, morte improvvisa e vasculopatie cerebrali) è stata dimostrata nel 27% di tali eventi (metanalisi Antithrombotic Trialists’ Collaboration, 2002). Lo studio CAPRIE ha  documentato nel sottogruppo di oltre 6000  pazienti con claudicazione trattati con clopidogrel (75 mg/die) una riduzione ulteriore annua dell’8,7% del rischio relativo di incidenza di infarto del miocardio, di ictus o di morte per eventi cardiovascolari, rispetto ai pazienti trattati con ASA.

Per quanto riguarda il trattamento del paziente con ischemia critica non esistono dati significativi. L’unico lavoro in letteratura è uno studio giapponese del 1982 nel quale soggetti trattati con ticlopidina (500 mg/die) vs placebo hanno mostrato una percentuale di  guarigione di lesioni trofiche (24% vs 14%) e una riduzione del tasso di amputazione (2% vs 4%).

Tra i farmaci anticoagulanti le eparine a basso peso molecolare sono attualmente preferite all’eparina non frazionata per la migliore maneggevolezza e facilità di impiego e per la tolleranza individuale. La terapia con eparina a basso peso molecolare ha mostrato una riduzione del dolore a riposo e una riduzione della estensione delle lesioni trofiche  resistenti ad altri trattamenti convenzionali. Non risultano trial a supporto della efficacia dell’eparina non frazionata.

Il gruppo dei  farmaci cosiddetti vasoattivi comprende molecole differenti come la pentossifillina, il buflomedil, farmaco a prevalente azione alfa-1 e alfa-2 antiadrenergica, il naftidrofuryl antagonista della serotonina, impropriamente definiti vasodilatatori nel recente passato, per la illusione di determinare un aumento di “r” nella formula di Hagen-Poiseuille perché in grado, in taluni casi, di incrementare il flusso ematico distrettuale. Non esistono tuttavia evidenze in studi controllati di una loro azione efficace. Tali farmaci agiscono prevalentemente su altri parametri quali la viscosità ematica, attraverso un aumento della deformabilità eritrocitaria, la riduzione della aggregabilità delle piastrine, l’inibizione dell’attivazione leucocitaria e del rilascio di radicali liberi. Anche la nifedipina, Ca-antagonista con effetti sul sistema vascolare periferico per la sua attività “antivasospastica”, non ha mostrato significativi effetti favorevoli nel trattamento della ischemia critica. Tali risultati, scarni per quantità di produzione scientifica e per il ridotto numero di farmaci testati in maniera appropriata, non ne consigliano l’impiego in tale quadro clinico. Al contrario l’impiego degli antiaggreganti (ticlopidina, clopidogrel ed ASA) è raccomandato in considerazione della dimostrata riduzione di eventi cardiovascolari (IMA, ictus e mortalità cardiovascolare). Controverso l’impiego a lungo termine degli anticoagulanti orali, in quanto a tutt’oggi non esistono dati che possano confermare una maggiore percentuale di salvataggi d’arto.

Prostanoidi. I principali meccanismi di autoregolazione del microcircolo sono  modulati dalla prostaciclina e proprio in tale contesto i prostanoidi si sono rivelati come  farmaci straordinariamente utili in relazione alla possibilità di controllo della maggior parte dei componenti della unità microcircolatoria; essi possono contribuire a ridurre l’aggregabilità piastrinica, l’attivazione leucocitaria e il danno endoteliale. I prostanoidi impiegati nel trattamento dell’ischemia critica non rivascolarizzabile sono la prostaglandina (PGE1), prostaciclina naturale (PGI2) e la prostaciclina stabile sintetica (Iloprost). 

La prostaciclina naturale, utilizzata nei primi studi sul trattamento della ischemia critica, ha una emivita di pochi minuti. La PGE1, secondo quanto confermato dalla TASC è da somministrare solo per via endoarteriosa, a causa della sua nota inattivazione polmonare. Per tale fugacità di azione queste molecole sono state sostituite nell’uso clinico dalla PGI2 analogo di natura sintetica (Iloprost) chimicamente più stabile ed attivo.

Con questo farmaco sono stati condotti numerosi trial in pazienti con ischemia degli arti inferiori sia in aperto che in doppio cieco, a breve e a lungo termine. I risultati emersi hanno dimostrato che la PGI2 (Iloprost) costituisce un efficace presidio farmacologico per il paziente critico, in particolare in soggetti non passibili di procedure di  rivascolarizzazione, ovvero in quelli nei quali è prevedibile o si è verificato un insuccesso di altri trattamenti e/o per i quali l’intervento demolitivo costituisce l’unica alternativa. Iloprost, come innanzi detto, costituisce l’analogo stabile di sintesi della prostaciclina PGI2, e possiede in vitro una potente azione antiaggregante piastrinica e vasodilatante arteriosa, ascrivibile prevalentemente all’incremento dei livelli di AMPc nelle cellule muscolari lisce vasali e secondariamente alla riduzione della risposta vasocostrittrice al trombossano A2, oltreché una attività angiogenetica (induzione del fattore di crescita endoteliale). Il razionale di Iloprost nella pratica clinica si basa sulla sua azione di “blocco” della interazione tra piastrine ed endotelio “danneggiato” con conseguente miglioramento del flusso ematico e ripristino del normale equilibrio tra prostanoidi endogeni, quali il trombossano e la prostaciclina. Numerosi studi (GISAP 1994, Staben e Albring 1996, DAWID Study Group 1998, Duthois e coll. 2000) effettuati per ragioni etiche non vs placebo ma in aperto o verso trattamenti farmacologici tradizionali, hanno confermato l’efficacia di Iloprost nel ridurre il dolore, nel migliorare le lesioni trofiche, nell’incrementare l’intervallo libero di marcia, nel ridurre il tasso di mortalità e quello di eventi cardiovascolari maggiori e di amputazione. Pertanto può concludersi che la terapia con Iloprost debba essere ritenuta il trattamento di elezione nel paziente con ischemia critica con rischio di amputazione, non passibile di intervento di rivascolarizzazione chirurgica o in caso di fallimento di precedenti interventi2, 3.

Il trattamento con Iloprost risulta tanto più efficace quanto più precoce risulterà l’impiego nelle fasi iniziali della ischemia critica (quando cioè si è in presenza di dolore a riposo o di lesioni parcellari e isolate).

Cilostazolo. Farmaco inibitore della fosfodiesterasi III, potente inibitore dell’aggregazione piastrinica con effetti vasodilatanti, induce vasodilatazione, inibisce la formazione di trombi, aumenta i livelli plasmatici di colesterolo HDL ed esplica effetti antiproliferativi sulla muscolatura liscia vascolare. Anche se trattasi di farmaco con specifica indicazione nella claudicatio intermittens, può essere prescritto nei casi in cui, dopo trattamento con prostanoidi, si realizza la regressione dal III stadio al II b.

L-propionil-carnitina. È una molecola che fa parte del sistema biologico delle carnitine ed è dotata di proprietà farmacodinamiche tali da conferirle un ruolo fondamentale nel mantenimento della omeostasi macro- e microcircolatoria. A tale molecola vengono riconosciute numerose azioni sul microcircolo e sul muscolo scheletrico. Sul versante microcircolatorio sono dimostrate azioni quali la protezione delle cellule endoteliali dall’ischemia (soprattutto per “stabilizzazione” della membrana), la  protezione dell’integrità e della funzione delle cellule stesse per riduzione della concentrazione dei radicali liberi e del calcio intracellulare, l’effetto profibrinolitico (aumento della sintesi del t-PA ed inibizione della sintesi dell’inibitore dell’attivatore del plasminogeno PAI-1), la prevenzione del rilascio di fattori vasocostrittivi di origine endoteliale (inibizione della liberazione di endotelina-1), l’azione antinfiammatoria  (inibizione del fattore di attivazione piastrinico – PAF e riduzione della componente vascolare del processo infiammatorio), la diminuzione dei processi di lisi eritrocitaria, l’azione sui parametri emoreologici (riduzione della viscosità ematica e conseguente aumento del flusso eritrocitario). Inoltre sul muscolo scheletrico la formazione di succinil-CoA con conseguente aumento di attività del ciclo di Krebs e della produzione di energia e un aumento della produzione di ATP. Il farmaco può essere somministrato per via endovenosa  e per via orale. 

In conclusione, nessuno dei singoli farmaci utilizzato nel trattamento delle arteriopatie si è dimostrato tuttavia in grado di modificare da solo la prognosi a distanza della CLI. Sono riportati in letteratura buoni risultati con protocolli di trattamento intensivo basato sul contemporaneo utilizzo, in ambiente specialistico, di anticoagulanti, antitrombotici, prostanoidi, antidolorifici e terapia iperbarica. Molti studi confermano la severità prognostica dei pazienti con CLI e la correlazione con la perdita d’arto e l’esito infausto. Ad oggi Iloprost rappresenta l’unica opzione terapeutica nei soggetti con ischemia critica non rivascolarizzabile. Rappresenta  anche efficace terapia adiuvante per i pazienti chirurgici perché permette di demarcare le aree di necrosi e consente di controllare il fenomeno di precondizionamento dei tessuti che saranno riperfusi. È importante sottoporre i pazienti a terapia con Iloprost nelle fasi precoci della loro storia  clinica di ischemia critica, cioè prima della irreversibilità. Iloprost trova indicazione anche in  pazienti anziani fragili o con significative comorbidità, non immediatamente rivascolarizzabili e in tutti quei soggetti nei quali le procedure chirurgiche e endovascolari possono essere procrastinate senza ulteriori danni. È possibile associare alla terapia con Iloprost altri trattamenti quali farmaci metabolici (LPC) e inibitori delle fosfodiestrasi III (Cilostazolo). Quest’ultimo può costituire trattamento di “mantenimento” utile in caso di miglioramento del quadro perfusivo con  ritorno al II stadio B o di claudicatio severa.

 

Ulcere venose o flebostatiche

L’ulcera venosa o più correttamente flebostatica è una lesione ad andamento cronico,  caratterizzata da perdita di sostanza cutanea che non tende a guarigione spontanea  determinata dalla alterazione emodinamica indotta dalla ipertensione venosa tale da compromettere la perfusione, la diffusione e lo scambio dell’ossigeno e dei nutrienti ai tessuti, in conseguenza delle significative alterazioni dell’unità microcircolatoria che sono all’origine dello “sfacelo” tessutale.

La malattia venosa cronica (MVC), di cui la lesione ulcerativa rappresenta l’epifenomeno clinico e obiettivo di maggiore gravità di scompenso emodinamico distrettuale, può correlare o con le sequele di una flebotrombosi profonda (SPF) (MVC da SPF) o con quelle di una flebopatia varicosa (MVC da flebopatia varicosa tronculare, reticolare o mista) ovvero con quelle di entrambi i quadri (MVC da SPF e flebopatia varicosa). Il momento etiopatogenetico posto alla base dello scompenso emodinamico dell’unità microvasculotessutale tipico della insufficienza venosa cronica (IVC) è sempre rappresentato da una ipertensione venosa significativa (ortostatica e ortodinamica).  Nella gran parte dei casi, l’ipertensione è causata dal reflusso attraverso valvole incontinenti, anche se l’eziopatogenesi può essere ascrivibile a ostruzione venosa ovvero a deficit grave della pompa muscolare del polpaccio correlata a obesità, a quadri neurologici o a  patologia articolare.

Nelle aree cutanee con manifestazioni distrofiche e sovente già sede di processi di dermoipodermite siderinica e di atrofia bianca, l’evoluzione del danno può giungere fino  all’ulcera flebostatica.

 

Caratteristiche cliniche

 

                        Ulcere venose

 

Le ulcere a genesi flebostatica prediligono la tipica sede sovra- o perimalleolare, elettivamente in sede sovramalleolare interna. Presentano forma variabile, da rotondeggiante a ovalare, spesso irregolare, con aspetti bizzarri. La grandezza è variabile da una estensione millimetrica a forme fagedeniche. Può essere unica ma può presentarsi anche in numero multiplo. Presenta bordi irregolari e frastagliati, talvolta esuberanti e callosi. Raramente interessa i piani profondi fino alla fascia muscolare o al piano osseo. Il fondo si presenta solitamente granuleggiante o fibrinoso, raramente necrotico. La cute perilesionale può presentare desquamazione lamellare sovente con eczema da stasi, discromie, dermo-ipodermite siderinica (lipodermatosclerosi) e atrofia bianca. Gli annessi cutanei possono esprimere manifestazioni distrofiche più o meno evidenti e si possono manifestare alterazioni delle secrezioni sebacee e sudoripare4.

Criteri generali di terapia. Come per tutte le lesioni cutanee croniche degli arti inferiori  anche di fronte a un’ulcera a genesi flebostatica un approccio terapeutico adeguato deve basarsi sostanzialmente sui seguenti criteri generali: il corretto e tempestivo inquadramento eziopatogenetico e fisiopatologico, il trattamento della patologia di base quando possibile, il trattamento locale (preparazione del letto della lesione ulcerativa,   medicazioni tradizionali, medicazioni avanzate), l’eventuale utilizzo delle nuove proposte terapeutiche (ozonoterapia - OTI - fattori peptidici cellulari di crescita - vacuum assisted closure - terapia genica - trapianti di lembi dermo-epidermici - stimolazioni elettriche).

La terapia medica deve essere utilizzata sin dai primi stadi della malattia e non come alternativa ad altri trattamenti, utilizzando farmaci di provata efficacia clinica (su indicazione delle Linee Guida Nazionali e Internazionali e della Medicina Basata sulle Evidenze) che vadano ad agire sui diversi bersagli responsabili delle alterazioni macro e microvascolari, dell’unità microvasculotessutale e, conseguentemente, dei segni dei sintomi e della loro evoluzione clinica.

I bersagli d’azione della terapia, in aderenza a criteri di ordine fisiopatologico sono rappresentati dal tono venoso, dalla stasi del microcircolo, dal drenaggio linfatico, dalla permeabilità capillare, dalla disfunzione endoteliale, dalla depressione del tono venocapillare, dalla cuffia di fibrina pericapillare, dall’attività fibrinolitica. È inoltre dimostrata una significativa riduzione dei tempi di guarigione dell’ulcera, associando alla terapia compressiva una specifica terapia farmacologica.

La terapia farmacologica trova indicazione in tutti gli stadi della classificazione CEAP (da C0 a C6) riferita alla MVC. Il suo ruolo risulta confermato dai numerosi lavori in letteratura, la sua efficacia riscontrata, la sua sicurezza accertata. I principali farmaci indicati sono i cosiddetti flebolinfotropi, anche definiti flebo-tonici, termine non del tutto appropriato in quanto non esprime la complessiva capacità di agire sul tono, sulla permeabilità e sulla emoreologia. A questo gruppo di farmaci appartengono prodotti estrattivi naturali o molecole di sintesi. Si tratta di circa 700 sostanze ben identificate (Geismann e Hinreiner). Chimicamente sono dei polifenoli vegetali con la struttura chimica del flavone a cui fu assegnato il nome di bioflavonoidi (1955) a seguito di determinazione della Accademia delle Scienze di New York. Hanno in comune la proprietà di migliorare il ritorno venoso e linfatico agendo sul tono e sulla permeabilità capillare. Per molti anni sono stati utilizzati sulla scorta di  risultati valutati empiricamente nella loro efficacia sulla sintomatologia soggettiva. Oggi mediante studi videocapillaroscopici e microlinfografici è stata dimostrata la loro capacità di determinare una accelerazione della velocità di flusso, una riduzione della permeabilità e un aumento del drenaggio linfatico a livello del microcircolo. Secondo una raccomandazione di grado A delle linee guida sulla diagnosi e terapia della MVC, questi farmaci trovano indicazione sui sintomi soggettivi e funzionali, sull’edema, sulla riduzione dei tempi di guarigione delle ulcere (meta-analisi specifica condotta su Diosmina-Esperidina micronizzata). In particolare la frazione flavonoica purificata micronizzata (FFPM) costituita per il 90% da diosmina e per il 10% da flavonoidi, aumenta il tono venoso, migliora il drenaggio linfatico e ha una azione antinfiammatoria che si estrinseca con una riduzione delle interazioni leucociti-endotelio. Tra gli altri principi attivi impiegati nel trattamento del paziente con IVC, merita di essere citata la cumarina (alfa-benzopirone), usata in particolare nel linfedema per la sua azione proteolitica e prolinfocinetica in grado di migliorare il flusso linfatico riducendo l’edema. Di tale principio occorre tuttavia ricordare la sua epatotossicità a dosi elevate. Nei quadri con evidente componente edematosa può essere utilizzata l’escina, una saponina estratta dai semi di ippocastano proprio per la sua spiccata e significativa azione antiedemigena. Grande attenzione meritano i glucosaminoglicani o GAGs (Mesoglicano e Sulodexide), sostanze eparinoidi di estrazione, derivate dalla parete vascolare con effetti antitrombotici e fibrinolitici. Infine alcuni prodotti di sintesi quali il calcio dobesilato e l’aminaftone per la loro azione di drenaggio linfatico e la pentossifillina indicata, da alcuni lavori in letteratura, nel trattamento delle ulcere cutanee.

Anche l’eparina a basso peso molecolare (EBPM) ha un suo razionale di utilizzo per la sua nota azione antitrombotica e per la riconosciuta attività inibitoria sulla adesione e sulla migrazione leucocitaria. Uno studio multicentrico e randomizzato (condotto da  Guarnera), ha documentato una percentuale di guarigione e/o di riduzione della estensione delle ulcere con il trattamento associato EBPM-elastocompressione, rispetto alla sola elastocompressione, con regressione del dolore e miglioramento della qualità di vita5.

Secondo le Raccomandazioni del Collegio Italiano di Flebologia è consigliato l’uso di farmaci flebotropi (FFPM, oxerutina, sulodexide, escina) per i pazienti con dolore e gonfiore a causa di MVC (Grado B 1b), è consigliato l’uso di  pentossifillina, FFPM, mesoglicano e sulodexide, in combinazione con l’elastocompressione, per accelerare la guarigione delle ulcere cutanee (Grado B 1b).

Studi clinici osservazionali non controllati ma su vasta popolazione di pazienti sottoposti a chirurgia ablativa o scleroterapia in associazione con FFPM 1 g, hanno dimostrato un miglioramento della qualità di vita (Grado C3).

Integratori alimentari. Negli ultimi anni sono state introdotte numerose sostanze con azione capillarotropa e/o flebotropa. Esiste molta confusione tra farmaci estrattivi, fitoterapici, prodotti di erboristeria, alimenti o integratori alimentari. In materia di pubblicità la UE ha stabilito che gli integratori alimentari siano da considerarsi coadiutori fisiologici e “non-curativi” e si mette in guardia dagli abusi. Il Ministero della Salute (DL 169 del 21/05/2004) sottolinea l’indicazione d’uso “salutistico” priva di finalità terapeutiche. Per quanto riguarda i tempi di trattamento, la terapia a lungo termine, dovrebbe essere sempre  “vestita” sulla accettabilità e sulla aderenza del paziente ad essa. Razionalmente, nel paziente con MVC può essere suggerito il seguente schema: nel 1° anno dopo la diagnosi elastocompressione e terapia farmacologica quotidiana sempre associate al rigoroso rispetto delle norme comportamentali, posturali e di stile di vita; dopo 1 anno di trattamento continuo, se la MVC risulta in buon compenso emodinamico, si può utilizzare il solo trattamento elastocompressivo in autunno e in inverno, mentre in primavera e estate, soprattutto in presenza di esacerbazione dei sintomi e dei segni, solo terapia farmacologica, utilizzando l’elastocompressione quando ben tollerata. Costantemente rispetto delle norme comportamentali e posturali.

 

Ulcere miste. Sono lesioni trofiche correlate fisiopatologicamente alla compartecipazione di una patologia venosa e di una ischemica, concorrenti alla loro genesi in differente prevalenza.

Il quadro clinico iniziale può variare con aspetti che caratterizzano la prevalenza della  componente arteriosa su quella venosa o viceversa. La coesistenza di questi due quadri clinici deve essere ricercata e confermata attraverso una anamnesi accurata (ricerca di pregresse flebotrombosi primitive o secondarie) e una valutazione diagnostica completa, volte a stabilire l’esatta stadiazione clinica dell’arteriopatia, percorso fondamentale per un corretto trattamento terapeutico.Una conseguenza pratica molto importante consiste nell’impiego dei trattamenti elastocompressivi necessari ed insostituibili nel paziente con  MVC da SPF e/o malattia varicosa, mal sopportati e talora controindicati nel paziente  arteriopatico.

La sede di tali lesioni ulcerative dipende dalla prevalenza della turba macrovasale. Sono lesioni dolenti e suscettibili all’infezione. Si presentano con forma non caratteristica. La cute mostra aspetti atipici e talora appare pallida mostrando sovente pigmentazioni discromiche. I margini sono netti o a picco, il fondo pallido o necrotico che può approfondirsi fino a raggiungere le strutture muscolo-tendinee6.

 

Si possono avere tre tipologie di ulcere miste.

Tipologia 1: pazienti con prevalente arteriopatia dei grossi rami di trasporto e di distribuzione (ulcera sovramalleolare di dimensioni variabili, bordi regolari, rotondeggianti, margini netti e tagliati a picco. Talora trattasi di lesioni ulcerative profonde con aree di necrosi sul fondo e sovente con esposizioni ossee e tendinee. Il dolore è intenso, continuo con esacerbazioni notturne e in decubito. Vi è assenza dei polsi periferici e spesso un edema declive da posizione antalgica coatta.

 

          Ulcera mista di tipo 1

 

Tipologia 2: compare in pazienti con prevalente patologia venosa. Sono ulcere perimalleolari su aree di lipodermatosclerosi, eczema da stasi e talora su zone già sede di  atrofia bianca. Solitamente è una lesione estesa, con margini irregolari e fondo essudante, fibrinoso. Di norma è meno dolorosa.

 

         Ulcera mista di tipo 2

 

Tipologia 3: trattasi di lesione mista “vera”. I pazienti presentano grave IVC e severa arteriopatia. Si rilevano assenza dei polsi arteriosi e quadri clinici distrettuali risultanti dalla sommazione dei due precedenti.

 

        Ulcera mista di tipo 3

 

La strategia terapeutica è strettamente dipendente dalla prevalenza dell’una o dell’altra componente vascolare (ipertensione venosa/flebostasi e deficit arterioso) e soprattutto dalla severità della compromissione perfusiva. Per il trattamento della componente venosa valgono naturalmente tutte le indicazioni precedentemente riportate. In presenza di arteriopatia moderata (ABI = 0,6-0,8) indicazione al bendaggio a pressione moderata che non deve superare la pressione arteriosa alla caviglia e, al tempo stesso, deve risultare efficace sull’emodinamica venosa (max 15-25 mmHg rispetto ai 40 mmHg riservata alle ulcere venose).

Se l’arteriopatia richiede una rivascolarizzazione distale e la safena ancorché refluente non è particolarmente ectasica, il prelievo della safena può consentirne l’utilizzo  per il by-pass.

Se l’arteriopatia è severa (ABI<0,5) l’angiografia e l’intervento di rivascolarizzazione  devono essere eseguiti prima di ogni trattamento della patologia flebologica.

 

Ulcere linfatiche

 

          Lesione ulcerativa linfatica

 

Sono lesioni che compaiono come complicanza di un linfedema primario o secondario, rappresentando tuttavia una evenienza infrequente, tranne che nei paesi tropicali e sub-tropicali dove la grande incidenza della filariosi correla con una elevata  presenza di tali lesioni. La comparsa di tali lesioni è strettamente legata alla fisiopatologia  dell’edema linfatico, alla progressione della stasi linfatica con accumulo di edema interstiziale e alla conseguente macerazione cutanea.

Il cardine della terapia è rappresentato dal trattamento elastocompressivo realizzato con adeguati bendaggi e indumenti elastici sovente personalizzati, per le dimensioni volumetriche dell’arto e per le gravi obesità sovente concomitanti. Importante lo stile di vita, l’attività fisica, il controllo del peso corporeo ed il trattamento locale impostato sulla tipologia e stadiazione della lesione stessa7.

In conclusione: le ulcere cutanee, in primo luogo quelle a genesi primitivamente vascolare che rappresentano la quota percentualmente maggiore, sono determinate da alterazioni anatomo-funzionali dei distretti macro e microcircolatori. Pertanto per una corretta gestione del paziente con lesione ulcerativa, risulta fondamentale un approccio clinico metodologicamente rigoroso e un percorso strumentale appropriato, prima di  intraprendere qualsiasi opzione terapeutica topica o sistemica. Una corretta gestione consente la razionalizzazione degli interventi terapeutici, la riduzione dei costi sociali  correlati a questa patologia, connotata da cronicità e recidività, e il miglioramento della qualità della vita. Non si deve prescindere dalla conoscenza dei singoli quadri nosografici,  di cui le lesioni ulcerative rappresentano l’epifenomeno e per le quali “l’attenzione” clinica e il trattamento topico, ancorché necessario e fondamentale, rappresentano soltanto la parte “esternistica” del programma diagnostico-terapeutico. Come per la maggior parte delle ulcere dunque, il modo di pensare “locale” o “distrettuale” deve essere abbandonato a favore di un approccio “generale”, in difetto del quale si assisterebbe soltanto a insuccesso terapeutico.


BIBLIOGRAFIA

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