Anno Accademico 2016-2017

Vol. 61, n° 2, Aprile - Giugno 2017

ECM: Update Clinico-Terapeutico in Reumatologia

14 febbraio 2017

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Infiammazione e Danno Osseo

G. Minisola

Introduzione

Il danno osseo contraddistingue malattie reumatiche immuno-infiammatorie quali l’Artrite Reumatoide (AR), la Spondilite Anchilosante (SA) e l’Artrite Psoriasica (ArPs). SA e ArPs sono le condizioni di più frequente riscontro nell’ambito delle Spondiloartriti Sieronegative (SpSn), un gruppo eterogeneo di malattie reumatiche infiammatorie caratterizzate da manifestazioni cliniche che possono includere artrite assiale e periferica, malattie infiammatorie intestinali, uveite e psoriasi. 

La compromissione strutturale dell’osso in corso di AR, SA e ArPs è strettamente collegata all’attivazione del sistema immune e al processo infiammatorio associato.

L’immunoflogosi tipica dell’AR, della SA e dell’ArPs è promossa da citochine infiammatorie (TNFα, IL-1, IL-6, IL-12, IL-17, IL-23,) e causa un danno osseo direttamente proporzionale alla durata, all’estensione e all’entità del processo infiammatorio.

Indipendentemente dalla attività osteolesiva di varie citochine infiammatorie, l’attivazione del segnale RANKL/RANK gioca un ruolo patogenetico rilevante.

 

Artrite Reumatoide

Il danno strutturale a carico della componente ossea delle articolazioni interessate, pur essendo condizionato dall’infiammazione tipica della malattia, riconosce meccanismi propri di natura immunologica.

L’attacco all’osso in corso di AR si manifesta classicamente sotto forma di Osteoporosi (OP) generalizzata, di OP iuxta-articolare e di erosione. L’infiammazione sistemica determina OP generalizzata e aumento del rischio di frattura, mentre l’OP iuxta-articolare e le erosioni compromettono la funzionalità articolare.

Le erosioni ossee riflettono il potenziale distruttivo locale della malattia e dipendono dalla formazione di osteoclasti nella membrana sinoviale infiammata. In tale sede si verifica un afflusso di monociti che si differenziano in cellule osteoclastiche in risposta a segnali mediati da RANKL.

Il riassorbimento osseo localizzato così determinatosi tende ad accrescersi interessando sempre più estesamente l’osso subcondrale corrispondente e raggiungendo la cavità midollare ove determina una condizione infiammatoria caratterizzata dalla presenza di linfociti B maturi.

La possibilità di riparare la cavità ossea erosa è compromessa dall'inadeguata formazione di osteoblasti. A livello molecolare, la mancata risposta osteformativa è legata all’induzione di DKK-1, un regolatore negativo dell’attività osteoblastica iperespresso nella membrana sinoviale infiammata.

I Glucocorticoidi (GC) e i “Disease-Modifying AntiRheumatic Drugs” (DMARDs) tradizionali sono largamente impiegati per il trattamento dell’AR, sia in monoterapia sia in associazione ai farmaci biologici.

I GC, pur inibendo l’attività osteoblastica e l’osteoformazione, possono avere in specifiche circostanze un effetto protettivo sul danno osseo strutturale in ragione della loro potente attività anti-infiammatoria. Lo studio COBRA (COmbinatietherapie Bij Reumatoide Artritis) ha dimostrato che dosi medio-alte di GC impiegate precocemente per un periodo limitato determinano un pronto controllo dell’attività infiammatoria e del danno osseo strutturale1.

Tra i DMARDs tradizionali, il Methotrexate (MTX) è il farmaco di riferimento, associato o meno ad altri DMARDs o ad agenti biologici. La sua attività osteoprotettiva non è chiaramente definita e sembra essere correlata a più meccanismi. Attualmente la combinazione di MTX e farmaco biologico è considerata una delle più efficaci modalità di trattamento dell’AR, in grado di controllare l’infiammazione e la distruzione osteoarticolare più di quanto facciano i due agenti quando impiegati in monoterapia. Ciò induce a ritenere che il MTX possa supportare, attraverso un effetto specifico addizionale, l’effetto protettivo della struttura ossea svolto dai farmaci biologici, agendo sinergisticamente sul blocco citochinico ovvero ottimizzando la farmacocinetica e la farmacodinamica del biologico al quale è associato.

Il blocco di IL-1, anche se utile per bloccare l’osteoclastogenesi RANKL-mediata dell’AR, si è rivelato poco praticabile nella pratica clinica a causa della scarsa tollerabilità di Anakinra, l’unico biologico contro IL-1 approvato per il trattamento della malattia.

L’inibizione di IL-1 nell’AR ha dimostrato di avere un’azione osteoprotettiva, anche se le sue caratteristiche, in ragione del ridotto numero di studi clinici, sono meno precisate di quanto non lo siano a seguito dell’inibizione del TNFα. Ciò nonostante, il blocco di IL-1 risulta efficace sulle erosioni facendo ritenere che IL-1 svolga uno specifico effetto osteolesivo2

Poiché il TNFα favorisce considerevolmente il danno osseo strutturale dell’AR, l’impiego dei farmaci in grado di bloccare tale citochina rappresenta una strategia efficace per proteggere la struttura ossea e per arrestarne il danno. Il TNFα è, infatti, un potente induttore della formazione osteoclastica e rappresenta, quindi, un importante legame molecolare tra infiammazione e lesione ossea.

Il TNFα danneggia la struttura scheletrica in più modi: favorendo l’espressione di RANKL, legandosi direttamente al suo recettore di tipo I sulla superficie dei precursori osteoclastici, favorendo la concentrazione locale di elementi cellulari precursori degli osteoclasti, compromettendo la funzione anti-osteoclastogenica delle cellule T-reg, promuovendo la formazione di DKK-1. I molteplici effetti svolti dal TNFα sulla formazione e sull’attività degli osteoclasti spiegano come il suo blocco farmacologico sia in grado di inibire considerevolmente la formazione e lo sviluppo di erosioni ossee.

I farmaci oggi disponibili per neutralizzare il TNFα sono Adalimumab, Certolizumab Pegol, Etanercept, Golimumab e Infliximab. Per tutti i farmaci citati esistono prove di efficacia anti-infiammatoria e osteoprotettiva nell’AR3-7.

Il blocco del segnale costimolatorio viene attuato dal farmaco biologico Abatacept, una proteina di fusione della porzione immunoglobulinica Fc con CTLA-4 ricombinante. Abatacept, inibendo il legame tra CD28 e CD80/86, blocca l’attivazione delle cellule T alla quale conseguono la flogosi e il danno osseo associati all’AR. Il blocco della costimolazione si è dimostrato strumento utile a svolgere un effetto protettivo sull’osso con un meccanismo RANKL-dipendente e con uno RANKL-indipendente verosimilmente mediato dalle cellule T-reg, la cui attività è regolata da CTLA-48.

L’IL-6 è una potente induttrice della PCR, un fattore di rischio indipendente per perdita ossea, eventi fratturativi e danno strutturale in corso di AR.

Tocilizumab, un biologico inibitore recettoriale di IL-6, neutralizza i numerosi effetti deleteri di IL-6, tra i quali quelli ossei. Tocilizumab, abbassando rapidamente e significativamente i livelli di PCR, svolge un effetto favorevole sull’osso. Inoltre, poiché IL-6 esercita attività osteoclastogenica stimolando la formazione di RANKL e favorendo la differenziazione delle cellule Th17, la sua inibizione risulta utile per preservare l’osso dal danno osseo strutturale dell’AR9. Infine, poiché recettori per IL-6 sono presenti sulla superficie dei monociti, è verosimile che la loro differenziazione in osteoclasti possa essere ostacolata dell’inibizione farmacologica di IL-6.

La deplezione delle cellule B con Rituximab, un biologico anti-CD20, è una strategia terapeutica dimostratasi efficace nell’AR. In tale malattia, Rituximab, oltre all’attività anti-infiammatoria, svolge un’azione favorevole sul danno osteostrutturale; non è tuttavia ben chiaro se gli effetti favorevoli sull’osso dipendano da una specifica attività collegata alla deplezione delle cellule B o se siano una conseguenza dell’attività anti-infiammatoria. Appare peraltro probabile che il legame tra deplezione delle cellule B e protezione della struttura ossea sia da collegare all’azione osteoclastogenica di tali cellule e alla loro capacità di esprimere RANKL, oltre all’inibizione osteoblastogenica secondaria a iperespressione di DKK-1. Va segnalato che aggregati di cellule B CD20 sono stati evidenziati nel midollo osseo iuxta-articolare di soggetti con AR in associazione a fenomeni di neoformazione ossea endostale. Non è ancora chiara l’interpretazione di tale rilievo, né è chiaro se Rituximab interferisca con la risposta ossea endostale10

Denosumab, l’unico farmaco biologico oggi disponibile per il trattamento dell’OP, è un anticorpo monoclonale anti-RANKL totalmente umanizzato. L’efficacia di Denosumab sul danno osseo da AR è stata valutata in uno studio di fase II multicentrico randomizzato in doppio cieco controllato da placebo, disegnato per verificare gli effetti del farmaco sul danno strutturale in pazienti con AR trattati con MTX11. Lo studio ha dimostrato che l’aggiunta al MTX di Denosumab somministrato ogni 6 mesi in due differenti dosi (60 e 180 mg) inibisce significativamente il danno strutturale dell’AR; l’effetto sembra essere più rapido e marcato con il dosaggio più elevato.

            Tra i farmaci classicamente impiegati per il trattamento dell’OP postmenopausale, Teriparatide e Bisfosfonati hanno fornito prove di efficacia anche nell’OP in corso di AR. In uno studio della durata di 18 mesi è stato dimostrato che la risposta a Teriparatide nei soggetti con AR è ancora più favorevole rispetto a quella rilevata in donne con OP postmenopausale12. Quanto ai Bisfosfonati, il loro impiego è stato ipotizzato e la loro efficacia dimostrata per il trattamento della perdita ossea, sistemica o localizzata, associata all’AR13.

Rimane dibattuta la questione se la deplezione delle cellule B o il blocco di IL-1, IL-6, TNFα e della costimolazione possano promuovere la riparazione parziale o totale del danno strutturale in corrispondenza dell’erosione. Da un punto di vista fisiopatologico si tratta di un evento possibile giacché è verosimile che, a seguito dell’inibizione di citochine osteolesive, possa ristabilirsi l’omeostasi ossea e possano crearsi le condizioni per il blocco dell’attività osteoclastogenica e per la facilitazione di quella osteoformatrice. Evidenze recenti, sia pur limitate e non derivate da ampi studi clinici randomizzati e controllati, avallano tale ipotesi.

 

Spondiloartriti Sieronegative

L’OP è una frequente comorbidità delle SpSn. Tra le SpSn quelle più studiate quanto a perdita ossea sono la SA e, in minor misura, l’ArPs. In entrambe le condizioni è più elevato il rischio di riduzione della Bone Mineral Density (BMD) e, conseguentemente, di eventi fratturativi.

            L’aumento del rischio fratturativo associato a riduzione della BMD è stato oggetto di numerose ricerche ed è ben noto nella SA. In tale condizione le fratture a carico della colonna possono verificarsi anche per traumi di lieve entità. La prevalenza delle fratture vertebrali è molto variabile nei vari studi eseguiti e può arrivare fino al 30%.

Poiché la riduzione della BMD si può osservare sin dalle prime fasi di malattia, è da ritenere che la perdita di massa ossea in corso di SA non sia da ricondurre semplicisticamente alla compromissione funzionale e alla conseguente ipomobilità, entrambe tipiche della fasi più avanzate di malattia, ma piuttosto ad altri fattori e, in particolare, all’infiammazione locale e sistemica.

I mediatori dell’infiammazione coinvolti nella SA e nell’ArPs hanno un effetto deleterio sul rimodellamento osseo e, pertanto, non sorprende che i farmaci in grado di neutralizzarli abbiano effetti positivi sulla perdita ossea associata alle due condizioni.  

Gli obiettivi principali della terapia delle SpSn sono il controllo dell’infiammazione e la protezione della struttura osteoarticolare. Il danno strutturale a carico della componente ossea delle articolazioni interessate, pur essendo condizionato dall’infiammazione tipica della malattia, riconosce anche meccanismi propri di natura immunologica.

La flogosi delle SpSn, promossa da prostaglandine e citochine infiammatorie (in particolare TNFα, IL-17, asse IL-23/17 e subunità p40 comune a IL-12 e IL-23), causa un danno osseo di entità e rilevanza variabili a seconda dell’entità, dell’estensione e della durata della malattia.

Poiché, come nell’AR, il coinvolgimento osseo e le lesioni strutturali conseguenti sono alla base degli esiti invalidanti e disabilitanti nel medio-lungo termine, ne deriva che un importante criterio di valutazione dell’efficacia dei farmaci impiegati nella SA e nell’ArPs è anche quello di verificare la loro capacità di intervenire sui processi immuno-flogistici alla base dei tipici fenomeni osteodistruttivi.

In uno studio effettuato in un contesto di primary care è stata rilevata una diminuzione del rischio di fratture cliniche in soggetti con SA trattati con Farmaci Anti-infiammatori Non Steroidei (FANS)14. In un altro studio è stato evidenziato che l’aumento del rischio di frattura si verificava nei pazienti con SA che non assumevano FANS con regolarità15. Peraltro, secondo una più recente esperienza, i pazienti con SA che usano FANS sarebbero esposti a un aumento del rischio di fratture cliniche, probabilmente ascrivibile a condizioni cliniche più gravi16. I dati disponibili circa i rapporti intercorrenti tra utilizzo di FANS e riduzione del rischio fratturativo devono essere interpretati con cautela e tener conto delle caratteristiche epidemiologiche e cliniche dei soggetti studiati.

Il meccanismo patogenetico dell’interessamento osseo promosso dalle citochine infiammatorie vede a livello molecolare l’attivazione di segnali mediati da RANKL e il coinvolgimento del segnale WNT e dei suoi principali inibitori Sclerostina e DKK-1.

Il TNFα è fortemente coinvolto nello sviluppo del danno osseo in corso di SA e ArPs secondo un meccanismo d’azione analogo a quello in corso di AR; pertanto, la sua inibizione con gli stessi agenti impiegati nell’AR risulta idonea ed efficace anche in senso osteoprotettivo.

Numerosi studi in pazienti con SA hanno dimostrato un favorevole effetto degli anti-TNFα sulla BMD. Una review sistematica di otto studi, tra cui uno randomizzato e controllato, ha valutato 568 pazienti con SA e ha dimostrato un aumento medio della BMD pari a 8.6% e 2.5% in corrispondenza rispettivamente della colonna lombare e dell’anca17.

            Nei pazienti con ArPs è stata ripetutamente segnalata una bassa BMD con prevalenza molto variabile. Secondo quanto emerge da una recente revisione sistematica della letteratura, le evidenze circa un’associazione tra ArPs e riduzione della BMD necessitano di conferme e, pertanto, sono necessari approfondimenti mediante studi longitudinali ben disegnati. Ben definiti sono invece gli effetti favorevoli sul danno osseo in corso di ArPs a seguito di trattamento con agenti anti-TNFα.

            In considerazione del complesso e rilevante ruolo osteolesivo svolto da IL-17 nella SA e nell’ArPs, l’impiego di agenti biologici neutralizzanti tale citochina può svolgere effetti favorevoli osteoprotettivi in entrambe le condizioni18; Effetti altrettanto favorevoli sono prevedibili a seguito di neutralizzazione dell’asse IL-23/17 e della subunità p40 comune a IL-12 e a IL-2319.

            Così come nell’AR, il progresso scientifico ha consentito di identificare sempre più precisamente i meccanismi molecolari e cellulari alla base del danno osseo tipico delle SpSn, il cui trattamento, per essere efficace, deve svolgere non solo attività anti-infiammatoria ma anche osteoprotettiva. Le moderne risorse terapeutiche, neutralizzando in modo selettivo i mediatori coinvolti, permettono di contrastare e contenere il danno osseo, sia esso generalizzato o localizzato. 

È verosimile che a seguito dell’inibizione delle citochine osteolesive coinvolte nella patogenesi delle SpSn possa ristabilirsi l’omeostasi ossea e possano crearsi le condizioni per il blocco dell’attività osteolesiva. È altrettanto verosimile che i Bisfosfonati possano efficacemente concorrere al contenimento della perdita ossea associata alle SpSn.

 

Conclusioni

Le malattie reumatiche infiammatorie, per il loro carattere sistemico e per il frequente interessamento extra-articolare, sono molto spesso complicate da danno osseo e da aumento del rischio di frattura. Nell’AR, nell’ArPs e nella SA il coinvolgimento osseo infiammatorio è largamente documentato.  

La patogenesi del danno osseo nelle sue molteplici espressioni clinico-radiologiche e l’incremento del rischio di fratture da fragilità sono verosimilmente multifattoriali e dipendono direttamente o indirettamente dalla malattia reumatica alla quale sono associati e dalle sue complicanze. Oltre allo stato di attività della malattia, vanno considerati anche fattori genetici, metabolici e ormonali. È sempre più chiaro il ruolo svolto da interazioni complesse tra i mediatori dell’infiammazione, il sistema RANKL/RANK e il segnale WNT.

I numerosi e convincenti dati disponibili indicano che i farmaci biotecnologici impiegati nell’AR e nelle SpSn possono svolgere anche un importante ruolo osteoprotettivo, specie se impiegati tempestivamente.

Anche se numerosi studi clinici hanno dimostrato che un’appropriata e tempestiva terapia immunosoppressiva è in grado di prevenire e controllare sia la perdita ossea localizzata che quella sistemica, va tenuto presente nella programmazione della strategia terapeutica che l’impiego di GC, specie se protratto e ad alte dosi, può rappresentare un importante fattore di rischio addizionale in grado di favorire il danno osseo.

Non vi sono specifiche raccomandazioni per prevenire o contrastare il danno osseo conseguente alla flogosi tipica delle malattie reumatiche infiammatorie. Obbligatori sono uno stile di vita sano e la supplementazione con calcio e vitamina D. Bisfosfonati, Denosumab e Teriparatide rappresentano valide opzioni terapeutiche nei soggetti con OP e in quelli con aumento del rischio di frattura, non essendoci alcuna controindicazione formale al loro impiego in prevenzione primaria e secondaria nel rispetto delle indicazioni della nuova nota 79 e dei criteri di sicurezza previsti per ciascun farmaco.

I numerosi e convincenti dati disponibili indicano che i farmaci biotecnologici impiegati nell’AR e nelle SpSn possono svolgere anche un importante ruolo osteoprotettivo.


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