Dott. Luca De Lipsis

Ospedale Sacro Cuore di Gesù – Fatebenefratelli, Benevento

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2015-2016

Vol. 60, n° 4, Ottobre - Dicembre 2016

ECM: L’Insufficienza respiratoria acuta e cronica

24 maggio 2016

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Insufficienza respiratoria: malattia di organo o di organismo? Il ruolo dell’equilibrio acido-base

F. Sgambato, C. Caporaso, S. Prozzo, E. Sgambato, L. De Lipsis

Introduzione

L’ossigeno è indispensabile per consentire il normale mantenimento delle attività metaboliche delle cellule e dei tessuti e, non a caso, la Genesi inizia con un “soffio” di vita che il Signore Dio esala sul fango fatto uomo.

Altro elemento di riflessione importante è che l’ossigeno, insieme all’idrogeno, contribuisce alla formazione dell’acqua, che è l’altro elemento essenziale per la vita.

L’organo deputato all’acquisizione dell’ossigeno è il polmone, mentre la stretta collaborazione cuore-polmoni è finalizzata, in effetti, alla sua utilizzazione all’interno dell’organismo.

A tal fine la membrana  alveolo-capillare rappresenta il trait d’union tra i due apparati, respiratorio e cardio-vascolare, oltre all’ausilio della funzione degli altri organi, in particolare quella cerebrale e quella renale. (Fig. 1)

 

 

Fig. 1 – Interrelazioni “ineludibili” fra polmone e altri organi e funzioni

 

Lo stesso Laennec R.T.H. scriveva nel suo trattato sulla “Ascoltazione mediata” del 1826: «Le coeur et le poumon forment avec le cerveau, suivant l’ingénieuse expression de Bordeu, le trépied de la vie; et aucun de ces viscères ne peut être altéré d'une manière un peu forte ou étendue sans qu'il y ait peril de mort».

“Il cuore e il polmone insieme al cervello formano, secondo l'espressione geniale di Bordeu, il treppiede della vita; e nessuno di questi organi può essere alterato in qualche maniera un poco forte o estesa senza che ci sia pericolo di morte”.

Il segreto di una normale respirazione e, quindi, di una corretta ossigenazione consiste nel mantenimento di una buona ventilazione e di un giusto rapporto tra ventilazione e perfusione. Quando si parla di ventilazione si intende, ovviamente, la ventilazione alveolare la cui diminuzione determina “insufficienza respiratoria” per deficit ventilatorio e provoca classicamente ipossiemia e ipercapnia.

L’insufficienza respiratoria acuta (IRA) o cronica (IRC) è caratterizzata dalla “incapacità  del sistema respiratorio a garantire un efficace scambio di O2 e/o CO2 tra l’atmosfera ed i tessuti” e ne risulta, in definitiva, una ulteriore variazione delle pressioni ematiche di questi due gas.

Essa è, di per sè, una patologia “complessa” a causa del coinvolgimento di vari organi ed apparati, che, in varia misura, possono dare il loro contributo nell’omeodinamica generale, fino a innescare una condizione di patologia sistemica.

L’anomalia degli scambi gassosi può essere “parziale” se determina solo ipossiemia o “globale” se contemporaneamente vi è un aumento della PaCO2 nel sangue arterioso.

L’ipossiema, in pratica, è il parametro fondamentale per definire l’insufficienza respiratoria.

In base alla modalità con cui si presenta, l’insufficienza respiratoria può essere “latente” cioè evidenziata dallo sforzo fisico, ovvero “conclamata” se presente anche a riposo.

In base ai tempi in cui evolve, poi, essa si distingue in “acuta” e “cronica”.

Nelle fasi iniziali della insufficienza respiratoria, la PCO2 non aumenta, come ci si aspetterebbe, ma diminuisce al di sotto dei valori normali, per effetto della iperventilazione. Peggiorando la situazione clinica, la curva della PCO2 tende all’inversione e torna ai valori normali in una prima fase. Tale momento rappresenta un punto critico e ingannevole da non sottovalutare, in quanto non patognomonico di miglioramento clinico, bensì anticamera di un peggioramento rapido ed irreversibile, se l’ossiemia continua a calare.

In questi casi, la stella polare di riferimento, quindi, è rappresentata dalla saturazione dell’emoglobina e dalla pressione dell’ossigeno arterioso, che possono continuare ad abbassarsi, facendo percepire il peggioramento clinico.

I sintomi clinici soggettivi si manifestano con una variazione della frequenza degli atti respiratori (tachipnea) e con la spiacevole consapevolezza di una respirazione difficoltosa (dispnea) solitamente correlata alla sensazione di "fame d'aria" e ad un decubito obbligato. Il successivo peggioramento clinico può evolvere nello stato confusionale, oppure nell’agitazione o nel sopore fino al coma.

I segni oggettivi dell’insufficienza respiratoria si manifestano con la tachipnea, l’utilizzo dei muscoli accessori (scaleni, sternocleidomastoidei, etc.), la retrazione degli spazi intercostali basali e sopra-clavicolari, la contrazione visibile delle ali del naso in inspirazione, il respiro diaframmatico irregolare, l’incoordinamento toraco-diaframmatico durante gli atti respiratori e la comparsa della cianosi.

 

Esame emogasanalitico ed insufficienza respiratoria

I criteri pratici per definire l’insufficienza respiratoria acuta nei pazienti cronici sono rappresentati da:

- un aumento della frequenza respiratoria e cardiaca rispetto ai valori di base

- un aumento della dispnea

- variazioni significative dei parametri emogasanalitici.

Il parametro fondamentale per definire l’insufficienza respiratoria è la ipossiemia con un valore, convenzionalmente fissato, di una PaO2 inferiore ai 60 mmHg e, quindi, la diagnosi di insufficienza respiratoria non si certifica solo analizzando il dato clinico, ma richiede sempre anche una osservazione dei valori emogasanalitici.

In caso di ipossiemia, i dati da considerare, oltre alla PO2 e la PCO2, sono il rapporto PaO2/FiO2 (frazione inspirata di O2)] e la DA-aO2 (differenza Alveolo-arteriosa di O2).

Una rapida valutazione dello stato di ossigenazione può essere ottenuta, in prima istanza, anche con un pulsossimetro che misura la saturazione d’ossigeno (SpO2) attraverso il letto ungueale.

Il valore normale della SpO2 è superiore al 95 %, mentre un valore tra il 92 e il 95 % indica la possibilità di una condizione di ipossiemia.

In ogni caso la SpO2 non può essere considerata sostitutiva della emogas-analisi se non nelle condizioni di lieve insufficienza, anche perchè sono molte le variabili esterne che ne inficiano il risultato (la vasocostrizione periferica, la ipo-perfusione, l’ipotensione, lo shock, l’anemia, la bradicardia, le aritmie, l’ittero cutaneo, lo smalto sulle unghie, la presenza di carbossi-emoglobina, etc.).

La SpO2 riveste, però, un ruolo di rilievo per la sua non invasività, che la rende molto utile per il monitoraggio continuo, per la possibilità di consentire una registrazione grafica visiva e per la buona riproducibilità con minima variabilità (2-4%).

Un valore inferiore al 92 % merita di essere valutato con un esame emogasanalitico e quello che conta è che la saturazione dell’emoglobina non scenda al di sotto del 90%.

Talvolta, però, il 90% si raggiunge anche con una PaO2 inferiore al 50% e, quindi, anche l’ipossiemia non è un parametro affidabile in assoluto. Indiscutibilmente è molto utile l’integrazione tra i diversi parametri clinico-laboratoristici e quelli anamnestici riferiti al singolo Paziente.

Non bisogna trascurare, poi, specie nei Pazienti provenienti dagli ambienti rurali o dai campi nomadi, anche la possibilità di una intossicazione da ossido di carbonio o da metaemoglobina, diagnosticabili solo con la ossimetria.

Un ulteriore elemento, ottenibile dall’emogasanalisi, utile ai fini della valutazione prognostica nonché al monitoraggio dell’eventuale successo terapeutico, è la lattacidemia.

In prima istanza la presenza di ipossiemia con ipocapnia orienta verso alcune forme cliniche in particolare: patologie da insufficienza parenchimale (parenchymal failure), patologie restrittive in genere, fibrosi, polmoniti, ARDS, scompenso cardiaco, embolia polmonare, enfisema primitivo.

La presenza di ipossiemia con ipercapnia orienta verso altre forme cliniche: patologie da insufficienza della pompa ventilatoria, patologie ostruttive in genere, patologie del sistema nervoso centrale, neuromiopatie, patologie della gabbia toracica, pneumotorace, versamento pleurico, obesità, mixedema.

In effetti, esistono due quadri di insufficienza respiratoria correlati all’interessamento di due entità funzionali distinte:

  • l’insufficienza polmonare, tipo 1 (‘‘lung failure, o meglio parenchymal failure’’), legata a un deficit degli scambi gassosi a livello del parenchima polmonare, con ipossiemia (per esempio fibrosi polmonare, embolia polmonare, ecc.);
  • l’insufficienza ventilatoria, tipo 2 (‘‘pump failure’’), legata ad un’insufficienza della meccanica  ventilatoria, con ipossiemia e ipercapnia (per esempio malattie neuro-muscolari, broncopneumopatia cronica ostruttiva, ecc.).

 

Il rapporto PaO2/FiO2 è un indicatore più semplice per valutare l’efficienza dello scambio gassoso a livello polmonare, durante la respirazione con aumentata FiO2 (frazione di ossigeno nell’aria inspirata).

In un soggetto normale, che respiri in aria ambiente (FiO2 del 21%), il valore di normalità è superiore a 400 (per esempio, PaO2 90 diviso 21 x 100 =  428) che corrisponde ad una percentuale di shunt fisiologici del 4-5%.

Durante la respirazione con aumentata FiO2 il dato laboratoristico è molto utile al fine di differenziare un danno polmonare lieve moderato (ALI-acute lung injury) in cui il valore del rapporto deve risultare inferiore a 300, da un danno polmonare più grave, rapidamente evolutivo, con possibilità di cronicizzazione verso la fibrosi polmonare (ARDS-acute respiratory distress syndrome), il cui dato risulta frequentemente inferiore a 200.

Un valore inferiore a 200 necessita quasi sempre di ventilazione meccanica e quindi si intuisce quanto sia indispensabile, nel valutare il significato della PaO2, conoscere quale percentuale di ossigeno il paziente sta respirando al momento del prelievo arterioso per l’analisi emogasanalitica.

Praticamente, se l’infermiere effettua un prelievo emogasanalitico e non segnala la FiO2 sullo “scontrino”, la valutazione di quell’esame perde molto della sua validità e può essere anche fallace. Se il paziente, per esempio, arriva in pronto soccorso con un’ambulanza ed effettua subito una emogasanalisi, la sua PaO2 ha un valore diverso a seconda se in ambulanza stava respirando ossigeno in aria ambiente (21%) oppure in maschera al 50%. Per esempio, una PaO2 di 63 mmHg, in prima istanza, può apparire soddisfacente, ma tutto può cambiare in base alla FiO2 respirata al momento del prelievo arterioso. Se il paziente stava respirando in aria ambiente, il rapporto PaO2/FiO2 risulterà essere uguale a 295, ma se il paziente stava respirando ossigeno in maschera al 50%, il rapporto sarà pari a 155, valore che attesta una grave insufficienza respiratoria, meritevole di assistenza in area critica o sub-intensiva.

 

Gradiente o differenza Alveolo – arteriosa di O2 (DA-aO2)
(dove la “A” maiuscola sta per Alveolare e la “a” minuscola per arterioso).

La DA-aO2 può essere un semplice indicatore in grado di distinguere la presenza di alterazioni degli scambi gassosi “intrapolmonari”, dalla possibilità di una ipoventilazione per motivi anche “extrapolmonari”.

Il calcolo complesso della differenza A-a dell’O2 viene effettuato automaticamente dall’emogasanalizzatore, a patto che, al momento del campionamento, prima di inserire il sangue nell’apparecchio, si abbia l’accortezza di inserire anche il valore di FiO2 respirata dal paziente (non è difficile istruire i propri collaboratori su questa banale manovra aggiuntiva, tanto più se si spiega loro la reale concreta importanza sul piano pratico nella diagnostica differenziale).

Vediamo quale ne è il razionale alla base.

Per avere questo importante parametro a nostra disposizione, bisogna conoscere la pressione alveolare dell’ossigeno ed anche quella arteriosa.Questa seconda è facilmente ottenibile con l’esame emogasanalitico, mentre la prima (cioè, la pressione dell’ossigeno a livello degli alveoli)  non può essere misurata con altrettanta facilità. Essa deve essere calcolata e la si può ottenere mediante la formula semplificata dell’equazione dei gas alveolari (PAO2 = PIO2 – PACO2/R). *

Tenuto conto che negli alveoli polmonari sono presenti i seguenti gas: ossigeno, azoto, anidride carbonica e vapore acqueo, il valore normale della pressione alveolare di ossigeno è uguale a 100 mmHg (760-47 x 0.21 – 40/0.8 = 100).

In caso di ipossiemia [diminuzione della pressione  di O2 a livello arterioso (<PaO2)], per interpretare al meglio il movente eziopatogenetico che ne è alla base, può essere  importante conoscere quale sia la pressione di O2 a livello alveolare (PAO2) e la differenza tra i valori di PAO2 a livello Alveolare ed i valori di PaO2 a livello arterioso.

In aria ambiente, a livello del mare, un soggetto sano presenta una pressione di O2 a livello dei gas alveolari di 100 mmHg, mentre a livello arterioso il valore è uguale a 85-90, per cui la normale differenza Alveolo-arteriosa è pari a 15-10.

Se la macchina dell’emogas ci dà il valore della pressione alveolaredell’ossigeno, con la semplice sottrazione del valore della pressione dell’O2 arterioso (ottenuto sul campione in esame con l’emogasanalizzatore) possiamo ricavare il valore della differenza Alveolo-arteriosa dell’ossigeno.

Questo può consentire di capire se la patologia dipende da un deficit della ventilazione (anche per causa extrapolmonare) oppure da un’alterazione degli scambi gassosi intrapolmonari.

In caso di ipossiemia (per esempio, PaO2 50 mmHg), se la differenza A-a è alta, per esempio 45, possiamo subito calcolare la pressione a livello Alveolare (50 + 45 = 95) che risulterà normale. Se, quindi, la pressione di O2 a livello Alveolare è normale, vuol dire che non ci sono problemi a carico dei meccanismi della ventilazione, per cui la responsabilità della ipossiemia riguarda il parenchima polmonare. Il meccanismo fisiopatologico non riguarda la fase pre-alveolare (perché l’ossigeno arriva normalmente al polmone) ma quella post-alveolare, ovverosia il problema sorge a carico degli scambi gassosi all’interno del parenchima polmonare.

Se, al contrario, sempre in caso di ipossiemia (PaO2 50mmHg) rileviamo un valore di differenza A-a di 12, possiamo dedurre che la pressione a livello Alveolare è bassa (50 + 12= 62 mmHg). In tal caso, la patologia riguarda la pompa ventilatoria (pump failure), ovverosia il problema è a livello della fase ventilatoria (es. deficit o depressione del SNC, deficit della gabbia toracica e del mantice polmonare, patologia ostruttiva) che non riesce a far arrivare ossigeno sufficiente a livello degli Alveoli.

In tal caso, per esempio, potremmo trovarci dinanzi ad una paziente che ha fatto uso eccessivo di sedativi (somministrati in maniera incongrua da parte della badante), con conseguente depressione del respiro e insorgenza di ipoventilazione, e non dinanzi ad un caso di broncopolmonite come avevamo pensato erroneamente in prima istanza.

 

Ossimetria

Un altro elemento diagnostico molto importante, in alcuni casi, è l’analisi delle altre forme di emoglobina presenti nel sangue, non facendosi distrarre dal rilievo di una buona o ottima saturazione alla pulsossimetria.

Non sempre infatti l’emoglobina è saturata dall’ossigeno (ossiemoglobina) ma può essere anche saturata dall’ossido di carbonio (CO-carbossi-emoglobina) o vi possono essere emoglobine modificate (per esempio, meta-emoglobina).

Un paziente che presenta una buona saturazione, pur continuando ad avere una ossiemia bassa, deve mettere in allarme e far praticare la ossimetria per dosare le altre forme di emoglobina saturata.

La presenza di carbossi-emoglobina e metaemoglobina ugualmente fanno risultare elevato il valore della saturazione, ma si tratta di una falsa saturazione, non dovuta alla presenza di ossigeno, bensì a sostanze che occupano il posto dell’ossigeno stesso, rendendo il paziente ipossiemico.

Il senso di allarme deve scattare in particolare quando i pazienti vengono dagli ambienti rurali o dai campi profughi o Rom (dove si fa ancora uso di bracieri o di altri tipi di riscaldamento approssimativi), ma il problema esiste anche per le caldaie di riscaldamento difettose delle città.

 

Lattacidemia

La osservazione del valore del lattato è da non sottovalutare mai.

Il lattato è un derivato del metabolismo del glucosio e la sua trasformazione prevede un normale metabolismo ossidativo.

Il prodotto intermedio del metabolismo del glucosio all’interno delle cellule è il Piruvato, il quale può avere due vie metaboliche differenti. In caso di condizioni normali aerobiche, la via principale è quella che prevede la trasformazione del Piruvato in Acetil-Coenzima A che a sua volta entra nel ciclo di Krebs.

Queste tappe metaboliche, all’interno dei mitocondri, dipendono dalla presenza dell’ossigeno, ma in caso di condizioni anaerobiche avviene una deviazione della via metabolica verso la produzione del Lattato mediante l’enzima LDH.

In caso di grave riduzione della perfusione tessutale (e di altre condizioni predisponenti alla anaerobiosi), quindi, è il piruvato a trasformarsi preferenzialmente in lattato.

Il valore normale dei Lattati è ritenuto essere 1 mEq / Litro (range 0,5-1,5 mEq/ L). Per concentrazioni di Lattato tra 2 e 5 si parla di iper-lattatemia, senza acidosi metabolica. Si definisce Acidosi lattica quando il valore del Lattato è superiore a 5 mEq/ L con un pH inferiore a 7,34. Alcuni parlano di Acidosi lattica anche con valori più bassi dei Lattati (4-5 mEq/L) ed un pH inferiore a 7.35. Un valore superiore a 4,0 mEq/ L già viene ritenuto un livello severo e, di converso, aumenta la mortalità in maniera significativa.

I rapporti tra la concentrazione di lattati e la mortalità confermano la capacità di presagire un esito infausto. Se il valore riscontrato è di 2 mEq/ L il valore predittivo positivo è basso con una bassa specificità, mentre se la lattacidemia è superiore a 4 aumenta molto il valore predittivo positivo, arrivando all’80 % (con una sensibilità del 62 % ed una specificità dell’88 %).

Nelle varie forme di shock la mortalità è di circa il 50% se il lattato plasmatico raggiunge dai 5 agli 8 mEq/ L nelle prime 24-48 ore di shock.

Un altro elemento che ha acquisito una discreta importanza, nel suo valore prognostico, è la capacità dell’organismo di liberarsi dei Lattati prodotti in eccesso. Se la clearance dei Lattati è uguale o superiore al 10 % dopo 6 ore, la probabilità di sopravvivenza è molto più alta rispetto a quelli che hanno una clearance inferiore al 10 %. La precoce clearance dei Lattati è significativamente associata ad un netto miglioramento del risultato clinico. Se ne deduce che il Lattato può essere sicuramente “un indicatore della gravità della malattia”, ma non bisogna trascurare la possibilità che esso sia anche espressione del grado di attivazione della risposta allo stress.

Meccanismi di compenso renale

Nell’insufficienza respiratoria con acidosi respiratoria, affinché l’organismo possa mantenere lo stato di equilibrio acido base, vengono attivati meccanismi di compenso fisiologico o compenso renale, in modo da riportare il valore di concentrazione idrogenionica (o pH) nel range di normalità.

Anche nelle altre alterazioni dell’equilibrio acido base (alcalosi respiratoria, acidosi metabolica, alcalosi metabolica) per ogni variazione causata da una patologia in atto, esiste una risposta di adattamento fisiologico, codificata in una apposita tabella (Tab. 1).

 

Tab. 1 – Compensi “attesi” fisiologici per ogni anomalia acido-base

Un paziente con ipercapnia tenderà ad iperventilare per eliminare l’anidride carbonica in eccesso (fenomeno clinicamente visibile) e tenterà anche di riassorbire i bicarbonati per controbilanciare l’ipercapnia (fenomeno meno visibile).

Questo secondo adattamento fisiologico avviene secondo precisi riferimenti numerici, che pertanto sono “attesi”, ovverosia previsti e facilmente calcolabili (vedi tabella).

In un’acidosi acuta è previsto un aumento di 1 mEq di bicarbonati per ogni 10 mmHg di aumento della PCO2, mentre nella forma cronica è atteso l’aumento di 3.5-4 mEq di bicarbonati per ogni 10 mmHg di aumento della PCO2.

Un soggetto con insufficienza respiratoria acuta, con una PCO2 di 70 mmHg (ovvero 3 volte dieci mmHg in più rispetto alla norma che è 40), dovrà avere, come adattamento “atteso” (detto anche compenso “previsto”), un valore di bicarbonati di 27 (24 + 1+1+1).

Un soggetto con insufficienza respiratoria cronica, con una PCO2 di 70 mmHg, dovrà avere, come adattamento previsto, un valore di bicarbonati di 38 (24+ 3.5+3.5+3.5).

Questa funzione di compenso atteso avviene prevalentemente a livello renale ed il rene (se funzione bene) attua un meccanismo di compenso lento, impiegando almeno 8-12 ore solo per dare inizio alla sua azione. Una volta avviato il suo compenso, la sua attività rimane stabile e il suo contributo risulta determinante (se non ci fosse nel rene il recupero di bicarbonati si assisterebbe al loro completo consumo in pochi giorni).

Se il paziente con insufficienza respiratoria cronica, che dovrebbe avere un valore di bicarbonati pari a 38 presenta, invece, un valore di 30, non significa che esso tiene molti bicarbonati rispetto alla norma, bensì che esso ha pochi bicarbonati rispetto al compenso atteso di 38.

Probabilmente, in questi casi, anche il suo rene non funziona adeguatamente e non riesce a compensare pienamente, oppure esiste un’altra problematica riguardante gli altri organi che hanno a che fare con i bicarbonati (es diarrea alcalina o vomito biliare con perdita di bicarbonati). Nel caso in cui il valore atteso si discosta all’opposto (coesistenza di un disturbo misto: acidosi metabolica e alcalosi metabolica) è possibile ipotizzare un errore iatrogenico (per esempio, una somministrazione di bicarbonati in eccesso, un abuso di diuretici o una ventilazione eccessiva).

Nella insufficienza respiratoria cronica con ipercapnia e iperbicarbonatemia, una ventilazione veloce è inopportuna in quanto, riducendo velocemente la CO2 senza una contemporanea riduzione dei bicarbonati, sposta la bilancia dell’equilibrio a favore di una alcalosi metabolica. Questa condizione può a sua volta favorire una depressione respiratoria che, se non prontamente trattata, può condurre a morte il paziente per ipossiemia.

Molte volte, infatti, se si fa attenzione alla lettura dell’emogas, si riscontrano alti valori di bicarbonati nei pazienti cronici (cuore polmonare cronico, etc.), anche molto più elevati dei compensi attesi (es. 48, 56 etc.). Questa evenienza, frequente, è molto seria in quanto può compromettere la vita dei pazienti. Se nessun medico, infatti, si preoccupa di farli diminuire o, almeno, di non farli aumentare ulteriormente, il paziente, per istinto di sopravvivenza, mette in atto, automaticamente, propri meccanismi di autodifesa. In primis, cerca di bloccare l’ulteriore riassorbimento dei bicarbonati e, se ciò non fosse sufficiente, gli rimane una unica possibilità, consistente nel fare aumentare l’anidride carbonica sull’altro piatto della bilancia. Per ottenere questo, però, l’unica arma è quella di “non respirare”, abbassando la profondità e la frequenza degli atti respiratori. Pertanto, essi tenderanno alla ipoventilazione con frequenza respiratoria bassa, rischiando di diventare sempre più ipossiemici fino alla morte. Inoltre, l’alcalosi metabolica aumenta l’eccitabilità neuromuscolare, riduce la portata cerebrale e aumenta l’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno, riducendone la sua liberazione nei tessuti.

In effetti, la difficoltà dell’individuazione clinica dell’alcalosi metabolica, è insita proprio nella costatazione che non esistono sintomi patognomonici dell’alcalosi metabolica, fatta eccezione che per segnali aspecifici, quali l’astenia, il respiro lento e superficiale, la ipereccitabilità muscolare, fino alle alterazioni della coscienza e al coma.

Se in questi pazienti si attua una ventilazione non invasiva rapida, che riesce facilmente ad abbassare i valori di CO2, si deve stare attenti a non rendere questa diminuzione troppo veloce, in quanto, l’auspicabile contemporanea dismissione di bicarbonati, ad opera del rene, avviene con un meccanismo molto più lento.

Si verrebbe a creare, in tal modo, un miglioramento della acidosi respiratoria, ma un peggioramento della alcalosi metabolica, con il rischio concreto di instaurare la cosiddetta “alcalemia da overshoot” che, a causa della riduzione acuta degli idrogenioni (o incremento del pH), può generare vasocostrizione cerebrale o provocare alterazioni neurologiche gravi, come le convulsioni ed il coma.

                                             

Considerazioni finali

In base al tempo a nostra disposizione, ovviamente, ci siamo limitati ad analizzare solo alcuni punti della insufficienza respiratoria, patologia molto frequente nella pratica clinica. Essa non è solo una questione di ipossiemia, in quanto un solo parametro di laboratorio non può mai bastare ad etichettare il quadro clinico di un paziente.

Quello che conta rimane sempre l’anamnesi, l’esame obiettivo ed il monitoraggio delle funzioni cliniche. Nell’insufficienza respiratoria, oltre alla PaO2, possono essere di grande ausilio anche il rapporto PaO2/FiO2, la differenza alveolo-arteriosa dell’ossigeno (DA-aO2), la ossimetria, la lattacidemia ed il monitoraggio dei bicarbonati.

In conclusione, sempre più ci si convince che il paziente non deve essere guardato a pezzi separati ma nella sua totalità. Sempre più ci si convince, inoltre, che non bisogna curare lo “scontrino” dell’emogas, ma le persone “intere”.

Un errore iatrogenico, per superficialità, può avere conseguenze anche più disastrose delle complicanze legate alla sola patologia di base. Un’attenta disamina degli elementi precedentemente descritti ed una idonea terapia può, al contrario, coadiuvare con i meccanismi di compenso già messi in atto dal nostro organismo. Per ristabilire e mantenere lo stato di equilibrio acido-base ottimale, finalizzato alla migliore sopravvivenza.


* PIO2 = pressione parziale dell’ossigeno inspirato che a livello del mare (pressione atmosferica dell’aria inspirata è uguale a 760 mmHg), in aria ambiente (21% O2) può essere quantificata con la seguente relazione = 760 – 47 (PH2O: pressione vapore acqueo presente negli alveoli che nelle condizioni standard di temperatura corrisponde a 47 mmHg ) x 0.21  = 149.73 mmHg.

 

PACO2 = pressione alveolare di CO2 che per semplicità la si fa corrispondere alla pressione arteriosa della CO2, 40 mmHg.

 

R = quoziente respiratorio [il rapporto tra anidride carbonica espirata (CO2) e ossigeno inspirato (CO2/O2)], che consente di determinare la proporzione di grassi e carboidrati che vengono impiegati ai fini energetici, può essere ritenuto pari a 0.8 anche in pazienti con patologia polmonare importante.

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