Anno Accademico 2023-2024

Vol. 68, n° 1, Gennaio - Marzo 2024

Seduta Commemorativa

14 novembre 2023

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Commemorazione del Prof. Vito Cagli

D. Manfellotto


Prof. Vito Cagli.

Egregio Presidente, gentili e illustri Colleghi,

tre mesi fa il professor Vito Cagli ci ha lasciati, dopo una vita intensa, trascorsa nella infanzia e nella giovinezza ad Ancona, passando attraverso le vicende personali e familiari del fascismo, le leggi razziali, e poi dedicata alla famiglia, all’ospedale, alla clinica, all’approfondimento culturale ed umanistico della scienza medica. Quella che nel suo ultimo libro ebbe a definire “La strana scienza”.

Vito Cagli nacque ad Ancona nel 1926.  

Laureato in Medicina all’Università di Roma nel 1950, specializzato in Medicina Interna nel 1956 e in Igiene e Tecnica Ospedaliera nel 1966. Era stato Libero Docente in Malattie infettive e in Semeiotica medica.

Dal 1961 al 1966 assistente medico nel reparto di Medicina Interna dell’Ospedale San Giovanni di Roma. Dal 1966 al 1991 ha diretto il Centro per lo Studio e la Cura dell’Ipertensione Arteriosa e delle Malattie Renali del Policlinico Umberto I di Roma.  

Professore a contratto nella Scuola di specializzazione per Medici laboratoristici e in quella di Nefrologia dell’Università Sapienza di Roma.

Ci ha lasciati il 13 agosto 2023.

Nel 1999, alla scadenza del secolo e del millennio, Vito Cagli scrisse un libro straordinario, “Viaggio intorno al mio studio. Riflessioni di fine secolo sulla medicina e non solo”, frutto della rilettura di alcuni libri della sua biblioteca personale con numerosi riferimenti al rapporto fra letteratura e Medicina.  

Ma in realtà, l’intera opera letteraria di Cagli è di per sé stessa un lungo, interminabile viaggio nella Medicina, nella sua storia, nelle sue problematiche.

Il mio ricordo vuole orientarsi su un racconto molto personale, affettuoso e non paludato, proprio come egli stesso avrebbe voluto.

Ho conosciuto Cagli nel 1976, al Policlinico Umberto I di Roma. Come studente di Medicina al quarto anno, ero alla ricerca di un istituto dove lavorare alla tesi di laurea e imparare a fare il medico. Capitai casualmente nel VII Padiglione del Policlinico Umberto I, attratto dal cartello che indicava il Centro per lo Studio e la Cura dell’Ipertensione Arteriosa e delle Malattie Renali, che tanto mi avevano interessato negli studi fino al quel momento effettuati.

Mi presentai a Cagli, che conoscevo soltanto dai suoi libri, in particolare “L’Interpretazione clinica degli esami biochimici” (1973), e “Diagnosi e terapia delle Nefropatie Mediche” (1976), su cui si sono formati tanti medici della mia generazione. 

Cagli era un uomo curioso, acuto, colto, mai sazio di conoscenza, appassionato studioso e lettore, caleidoscopico. In altre parole capace di vedere e di intuire le varie sfaccettature e componenti di tanti temi e problemi. Mi affascinò immediatamente questo suo modo di affrontare la professione e discutere di problemi clinici.

Nella sua vita professionale e culturale, ha attraversato vari periodi, ma non fasi separate, convergenze parallele, come avrebbe detto Aldo Moro. 

Infatti vi è stato il Cagli clinico e ricercatore; il Cagli clinico-divulgatore; il Cagli clinico-metodologo; il Cagli romanziere; il Cagli appassionato di psicoanalisi e di psicologia, attraverso l’esperienza dell’analisi, dei gruppi Balint, dello studio della relazione medico-paziente; il Cagli clinico-epistemologo-saggista-umanista-storico.  

Ma intanto la sua vita scientifica e professionale proseguiva con il lavoro in laboratorio di analisi, con l’attività clinica ospedaliera e con una corposa produzione scientifica, con 136 articoli recensiti su PubMed.    

Una prima fase vede Cagli clinico divulgatore e trattatista, autore dei già citati manuali fondamentali come “Interpretazione clinica degli esami biochimici” (1973) e “Diagnosi e terapia delle Nefropatie Mediche” (1976).

Nel 1960 Cagli era stato chiamato da Costantino Iandolo, un altro dei miei Maestri, a far parte della redazione della rivista “Il Policlinico sez. pratica”, una sorta di laboratorio clinico-letterario, un cenacolo che si riuniva ogni settimana, composto dai massimi clinici dell’epoca, e nel quale io stesso ebbi la fortuna di entrare come “uditore”, su segnalazione di Cagli, poco dopo la mia laurea.

La rivista “Il Policlinico” era stata fondata nel 1893 da Guido Baccelli, che nell’articolo di  apertura del primo numero aveva scritto: “La diagnosi esatta è la sovrana potenza del clinico, perché la diagnosi esatta è la somma necessità della cura”. Una frase che affascinò Cagli e che è rimasta una sorta di mantra nella sua vita professionale.

A distanza di pochi anni da quanto scritto da Baccelli, il suo allievo principale, Augusto Murri, nella lezione di apertura al corso di clinica medica dell’anno 1906-1907 nell’Ateneo bolognese, affermava: “Disse benissimo il mio illustre maestro Baccelli: l’esatta diagnosi è la sovrana potenza del pratico. Però non bisogna intendere per diagnosi il battesimo affibbiato ad un malato. Chi di voi non conosce qualcuno di questi sapienti che pretendono di far diagnosi senza pur aver veduto l’infermo? Uno dirà: datemi una boccetta d’orina e vi dirò la diagnosi; l’altro dice: fatemi fare una cultura del sangue e vi dirò la diagnosi. Pretese compassionevoli nella loro ignoranza! È inutile che vi ripeta che costoro sapranno dire qualche cosa della malattia, ma la diagnosi esatta, che dà al pratico quella potenza, non può essere stabilita che da chi sa sviscerare tutto intero il complesso dei fatti, che si intrecciano nell’ammalato”

Questo filo rosso che univa Baccelli a Murri si legò anche a Cagli, convinto che il valore della diagnosi, e soprattutto il metodo clinico che deve sempre essere adottato, sono in grado di dare alla professione del medico il massimo del suo prestigio e della sua importanza. Per molti secoli il sapere del medico è stato prevalentemente rappresentato dalla conoscenza dell'anatomia, a partire dalla dissezione dei cadaveri umani di Vesalio, fino alle riflessioni anatomo-cliniche di Morgagni. Ma l’elaborazione del metodo clinico passa appunto per Augusto Murri, il grande cattedratico di Bologna, con la sua ricerca ossessiva della diagnosi, attraverso un'attenta indagine anamnestica e l'osservazione scrupolosa del paziente, quasi come “se conoscendo il nome della malattia essa fosse già sconfitta e almeno in parte è così”. 

Dopo Murri, l’altro grande fondatore del metodo internistico è stato sicuramente Cesare Frugoni, maestro di Cagli e di tanti altri internisti della generazione precedente alla mia, come Costantino Iandolo e Sergio Vulterini. 

Murri, però, aveva vissuto una vita personale e professionale controversa ed era stato in un certo senso emarginato dalla comunità scientifica medica eguardato con diffidenza e distacco dall’Accademia.

A tale proposito è illuminante l’aneddoto che riguarda il professor Pietro Grocco, maestro di Cesare Frugoni e clinico medico di Firenze. Quando si ammalò gravemente, alcuni dei suoi assistenti gli dissero “Professore, ma perché non chiamiamo Murri?”, ma lui rispose: “Io ho bisogno di un medico, non di un filosofo”.

Murri aveva anche studiato Freud e la psicanalisi, e vedeva nel rapporto psicologico col paziente, nell’empatia, nella relazione, la chiave della formazione del medico.

Partendo dalla elaborazione culturale e dagli insegnamenti di Murri e di Frugoni, Cagli nella sua produzione letteraria si è dedicato moltissimo al metodo clinico e al processo della diagnosi. 

Anche questo un lungo percorso: “La visita medica” (1991); “Elogio del metodo clinico” (1997); “La crisi della diagnosi” (2007); “Dialogo sulla diagnosi: un filosofo e un medico a confronto” (2008) scritto insieme al suo grande amico Dario Antiseri, celebre filosofo e storico della filosofia; “Le cime e le valli: percorsi della medicina” (2010); “Come si ragiona in medicina” (2013); “Apriti Sesamo!” (2015), che analizza i rapporti fra la diagnosi e gli strumenti diagnostici moderni.

L’ultimo libro che ha scritto, “La strana scienza. Riflessioni sulla medicina e sulla sua complessità” (2020), richiama nel titolo l’opera del grande filosofo tedesco Nietzsche, “La Gaia scienza”, che pure affronta epistemologia e psicologia. Nel libro si parla della nascita e dell'evoluzione della clinica, della Medicina come scienza e della figura dell'internista, spiegando perché la Medicina è una scienza "strana". Un tempo, ricorda Cagli, vi era un’idea elegiaca della Medicina e del medico come missionario. "L'idea della professione medica come missione è durata fino a tutta la prima metà del ‘900, poi vi è stata l'evoluzione e l'omologazione fra medicina e scienza. In realtà è necessario ricordare che mentre l'attività di ricerca medica è a pieno titolo scientifica, l'attività clinica in quanto scienza dell'individuo malato singolarmente preso non può esserlo. Insomma la medicina presa nel complesso delle sue articolazioni non può essere considerata una scienza, ma è oggi indubbiamente fondata nella sua prassi su criteri scientifici”.

Una illuminante interpretazione del significato della Medicina e della professione medica, vera sintesi del lavoro di una vita come clinico, epistemologo, saggista, umanista, storico.  

Nel descrivere l'evoluzione della Medicina e del rapporto medico paziente, Cagli sostiene che qualsiasi supporto di tipo psicologico può giovare al malato, ma "poco o nulla può fare contro la malattia. Però questo rafforza il rapporto medico-paziente affinché possa servire da contenitore delle ansie legate alla condizione di chi è malato e quindi in pericolo. Troppo spesso si sono separati dall'esercizio della medicina clinica gli aspetti psicologici e la cultura umanistica, quasi fosse un abito della festa da esibire soltanto in particolari ricorrenze chiuse".

Però proprio questa separazione ha favorito l’invasione della clinica da parte della Medicina virtuale e tecnologica.

In passato l'approccio al malato era distante, non prevedeva l'esame fisico e il contatto, e la Medicina era "esterna”. Poi strumenti come lo stetoscopio, lo sfigmomanometro e l'elettrocardiografo fecero via via dire addio alla vecchia Medicina che teneva a distanza il corpo del paziente, veicolo un tempo di infezioni incurabili. 

Personalmente, mi sento di dire che oggi viviamo però il paradosso di una tecnologia avanzata che entra sempre più a fondo nel corpo del paziente, ma che rischia di riportare di nuovo "all'esterno" la figura del medico. La crescita esponenziale delle conoscenze della tecnica ha consentito successi inimmaginabili nella cura delle malattie. Ma la Medicina di precisione e personalizzata, pur tanto di moda, si basa in realtà su una valutazione perlopiù molecolare, genetica, che ancora una volta vede lo strapotere della tecnologia rispetto alla valutazione clinica, che dovrebbe precedere e non seguire la tecnica, governandola. 

E con Cagli potrei concludere che “il medico del futuro dovrà essere capace di utilizzare al meglio tutti i progressi della scienza, a cominciare dalla medicina basata sull'evidenza, da individualizzare e trasferire al paziente visto nella sua interezza e nella sua vita reale. Oggi l'iper-specializzazione ha finito invece per frammentare sempre di più il corpo del malato, visionato dal medico per l'aspetto di propria competenza, tralasciando non di rado tutto il resto, col rischio di omissioni o di errate diagnosi”.  

Invece i giovani medici, eternamente connessi a uno smartphone o al computer, non cercano (o magari non trovano) più la parola di un maestro, “ma piuttosto la risposta dell'oracolo elettronico”, come commentava amaramente lo stesso Cagli.

Nella sua storia professionale, così come il suo ispiratore Augusto Murri, Cagli ha studiato la psicoanalisi a partire da quando era ragazzo, quando aveva più o meno 15 anni, come egli stesso raccontava, e maturato una grande passione intellettuale per Freud.  

Da questo incontro sono nati: “Dal continente all'Isola, il passaggio di Sigmund Freud dalla medicina alla psicoanalisi” (1998), “L’equivoco psicosomatico” (2002), e soprattutto “Sognando l'ippogrifo” (1995), che gli fece vincere nel 2001 il prestigioso Premio Musatti della Società Psicoanalitica Italiana “per il suo contributo alla conoscenza della psicoanalisi”.

La sua produzione letteraria si è sviluppata su molti fronti, sempre all’insegna di un vero Umanesimo, anticipando anche lo sviluppo delle Medical Humanities e della cosiddetta Medicina narrativa.  

Vi è il Cagli romanziere e narratore (“Tennis Club”, 1991, “Una follia più grande”, 2005, “Il centenario” (2008), ma anche critico letterario, con “Malattie come racconti” (2004), che descrive come romanzieri e drammaturghi hanno scritto di Medicina, medici e malattie.  

Ma soprattutto, mi sento di dire, con il già citato “Viaggio intorno al mio studio. Riflessioni di fine secolo sulla medicina e non solo”, nel quale analizza e commenta, alla luce della situazione attuale, opere che aveva nella sua biblioteca personale, di Goethe, Proust, Garcia Marquez, Belli, Mann, Zweig, Verne, Cronin, solo per citarne alcuni, ma anche di grandi autori della letteratura medico-scientifica.

Vi è poi il Cagli storico, che ha raccontato la “Vita di Casanova e la medicina del suo tempo” (2012) e “La medicina nella Montagna magica di Thomas Mann” (2018).

“Ecco, io forse ho un po’ sconfinato”, commentava in una intervista del 2022 al Giornale Italiano di Nefrologia, “ma è per questo che ho scritto su tanti aspetti diversi e non ho scritto su personaggi. Casanova non è un personaggio di cui si scrive perché magari è andato a letto con tante donne. Ma perché è una vita meravigliosa, ed è una testimonianza del Settecento come non ce ne sono altre, e noi siamo figli del Settecento. Perché è stato il Settecento quello che ci ha insegnato tante cose, ci ha insegnato a pensare e ci ha insegnato anche che dobbiamo avere certi valori, come la libertà, per esempio. E per quanto riguarda Thomas Mann, io ho scritto un libro su “La montagna magica” (o “La montagna incantata” secondo le diverse traduzioni) perché è una testimonianza di cose di cui i giovani non sanno nulla. Oggi se accenni loro cos’era la cura della tubercolosi, cosa voleva dire la cura sanatoriale non lo sanno, perché non l’hanno vissuta. E non conoscono le dinamiche che vi si sviluppavano (io le ho viste in tanti, anche amici e colleghi): amori che nascevano, matrimoni, rotture di fidanzamenti. La vita in sanatorio era un mondo. Vogliamo escludere quel pezzo di mondo? Dice “non mi interessa più, è roba vecchia”. Possiamo anche abolire i libri di storia, se non ci piace li possiamo addirittura bruciare, ma chi ha bruciato i libri è poi stato bruciato lui stesso”. 

Cagli era molto legato alla sua famiglia. Un amore e un rapporto umano e anche professionale fortissimo con la moglie Anna, anche lei medico, conosciuta in ospedale in giovane età, scomparsa alcuni anni fa. Tre figli: il maggiore, Alessandro, Nora, scomparsa precocemente e Irene. A Irene e Alessandro va il mio ringraziamento più sincero per avere chiesto all’Accademia Lancisiana che fossi io a ricordare il loro Padre. 

Cagli apparteneva ad una importante e famosa famiglia ebrea marchigiana alla quale era affettivamente molto legato e alla cui storia era anche culturalmente molto interessato. Essendo nato nel 1926, era passato attraverso il fascismo, le leggi razziali, le persecuzioni, le difficili vicende personali sue e di molti familiari.  

Prima di lasciarci Cagli aveva avuto il tempo di leggere e di apprezzare con orgoglio il bel libro scritto dal figlio Alessandro “La foto di famiglia. Storie di ebrei italiani fra Ottocento e Novecento” (2023). Una ricostruzione precisa e documentata della storia della famiglia, partendo dai volti dei familiari ritratti in un’antica fotografia che avevano in casa. 

La vita e la storia personale di Cagli rappresentano un modello di riflessione sul significato della Medicina interna e sul ruolo del medico. Come nasce, perché nasce, cosa è oggi. È anche uno stimolo a pensare e riflettere: non un algoritmo, ma uno strumento di analisi critica. 

Fu Leonardo Da Vinci a scrivere che “triste è quel discepolo che non avanza il suo Maestro”. 

Come allievo di Cagli posso serenamente affermare che non l'ho superato e sono contento di questo. Un Maestro deve per sempre incarnare questa immagine e questo ruolo davanti a noi e nel nostro pensiero. 

Non è importante "avanzare” il Maestro, ma avere la capacità, l'intelligenza e la modestia di utilizzare i suoi insegnamenti, per andare avanti ed applicarli nell'evoluzione della propria storia e vita professionale.

Per tutto questo gli sono, gli siamo, infinitamente grati.

Grazie Vito.


Prof. Dario Manfellotto, Medicina Interna, Ospedale Isola Tiberina, Gemelli-Isola, Roma; Presidente Fondazione FADOI, Società Scientifica di Medicina interna 

Per la corrispondenza: dario.manfellotto@afar.it