Prof. Roberto Russo

Già Professore Associato Cattedra di Clinica Ostetrica Ginecologica, “Sapienza” Università di Roma

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2022-2023

Vol. 67, n° 4, Ottobre - Dicembre 2023

Conferenza: La scoperta dei biomateriali per il benessere umano

20 giugno 2023

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La scoperta dei biomateriali per il benessere umano

R. Russo


Introduzione

Procedendo nell’età ho notato come siano aumentate, specie in questi ultimi anni, le terapie farmacologiche, le vaccinazioni, l’assunzione di numerosi integratori. Inoltre, se parlo con i miei amici e clienti, moltissimi sono stati operati di cataratta, di impianti odontoiatrici, protesi d’anca, di ginocchio, di stent coronarici, per cui mi sono reso conto che, anche grazie ai biomateriali, viviamo meglio e più a lungo. Le conquiste più importanti sono avvenute nella seconda metà del novecento con materiali innovativi biocompatibili, coadiuvati nelle loro applicazioni, dall’antibioticoterapia, dalla attuale analgesia e anestesia e da campi operatori sterili nei relativi interventi chirurgici. I protagonisti di queste scoperte non solo sono medici chirurghi, ma anche spesso chimici, fisici, biologi e ingegneri. Come in una precedente comunicazione mi interessai ai farmaci per caso e alla serendipità, la mia curiosità si è rivolta ora alla scoperta dei biomateriali che hanno migliorato la nostra esistenza.

Per definizione i biomateriali sono sostanze o combinazioni di sostanze, farmaci esclusi, usati per aiutare i nostri corpi sia per l’aumento dell’età, sia per ripararli negli incidenti, sia per modificarne le imperfezioni.

Prenderemo in considerazione le lenti intraoculari per la cataratta, gli impianti dentali, le protesi ossee, gli stent, l’acido ialuronico nelle sue molteplici applicazioni.


La leggenda dell’Oftalmologia

Come un infortunio, in un combattimento aereo, ha portato in seguito al trattamento della cataratta con lenti intraoculari (IOL). Nel 1940, durante la seconda guerra mondiale, un noto pilota della Royal Air Force (RAF) Gordon Neil Spencer “Mouse” Cleaver (1910-1994) asso del pilotaggio, membro dello squadrone n. 601, fu colpito a Wincester in combattimento. Il suo caccia Hurrigane prese fuoco e frammenti di plastica del tettuccio in frantumi gli colpirono il viso e gli occhi; nonostante le ustioni e le ferite riuscì a paracadutarsi salvandosi la vita. Il pilota subì 18 interventi chirurgici per le ferite al volto e agli occhi. Per le lesioni oculari si affidò ad un noto oculista, Harold Ridley, che aveva in questo campo una notevole esperienza, avendo curato molti feriti della RAF. Nicholas Harold Ridley (1906-2001) iniziò la sua formazione medica al St Hospital di Londra e al Moorfield Eye di Londra specializzandosi in Oftalmologia. Ridley visitando Gordon Cleaver ferito al viso e occhi, diagnosticò la perdita della vista dell’occhio destro e si adoperò al recupero della vista dell’occhio sinistro. Contestualmente osservò con grande acume che, mentre le schegge di vetro procuravano negli occhi dei feriti infiammazioni e rigetto, le schegge di plastica (perspex) che avevano colpito Gordon Cleaver non avevano creato nessuna reazione. Questa acuta intuizione spinse Ridley a pensare di utilizzare una lente di plastica da sostituire a quella naturale rimossa durante l’intervento di cataratta (dal greco cascata di acqua, discesa di un velo dall’alto).

Il 29 nov. 1949 al St Thomas Hospital di Londra, segretamente, operò inserendo una lente intraoculare (IOL) di perspex nell’occhio di una infermiera di 45 anni Elisabeth Atwood. Questo intervento mostrò la professionalità e il coraggio di Ridley nel dissenso e nella riprovazione di tutto il mondo medico che definiva l’intervento “l’immissione negli occhi di una bomba a orologeria”. Ma da questo momento sono iniziate le applicazioni chirurgiche delle lenti intraoculari non solo per incidenti traumatici ma principalmente per i pazienti affetti da cataratta. Queste lenti sono costituite dal polimetilmetacrilato (PMMA), materiale plastico formato da polimeri del metacrilato di metile, che presenta un ottimo grado di leggerezza e biocompatibilità con i tessuti umani, spingendo così la produzione di queste lenti intraoculari per l’intervento di cataratta. Il PMMA era stato sintetizzato alla fine del 1920 dall’azienda tedesca Rohm & Haas con il nome di Plexigas, brevettata poi nel 1933, mentre gli inglesi dell’Imperial Chemical Industries (ICI) lo depositarono nell’anno successivo con il marchio Perspex “dal latino perspicio “vedo attraverso”. 

La scoperta del Plexiglass è avvenuta per caso. Il chimico Otto Rohm aveva lasciato del metacrilato di metile (monomero del PMM) dentro una bottiglia di vetro vicino a una finestra del laboratorio. Dopo alcuni giorni la bottiglia esplose e si trovò un blocco di materiale trasparente tra i vetri rotti. Il sole aveva creato una reazione chimica trasformando il liquido in PMMA. Questa reazione permise a Rohm e i suoi chimici di sintetizzare tra due lastre di vetro un pannello plastico sottile cui dettero il nome di Plexigass. Solo nel 1981 questa lente intraoculare di plastica fu riconosciuta sicura ed efficacie per l’uso dalla Food and Drug Administration americana. Milioni di persone tuttora, nel mondo, sono operate per cataratta, migliorando con gli anni la tecnica e l’analgesia di questo intervento. Lo stesso Gordon Cleaver subì questo intervento all’occhio sinistro nel 1987 dopo 47 anni dall’infortunio che gli ripristinò la vista. Anche il suo oculista Ridley fu operato bilateralmente per cataratta nel 1990 nell’ospedale St Thomas di Londra dove 41 anni prima aveva eseguito segretamente il primo intervento di cataratta. Ridley durante la seconda guerra mondiale fu inviato in Africa dove individuò in Ghana l’oncocercosi cecità fluviale, infezione da filaria, malattia endemica che porta a cecità, che descrisse in una importante monografia “Ocular Onchocerciasis".

Inoltre descrisse una oftalmia da veleno di serpente e sperimentò che questo veleno se diluito poteva avere un effetto anestetico. Infine in Birmania descrisse e curò prigionieri di guerra con Ambliopia Nutrizionale provocata da carenza alimentare. I riconoscimenti e premi furono numerosi, ma tardivi, dopo circa trent’anni successivi all’impianto della prima lente intraoculare.


Implantologia dentale

Ingvar Branemark (1929-2014). Nel 1952 a Lund in Svezia un giovane ricercatore aveva posto nelle zampe di alcuni conigli un oculare, per microscopia in vivo, racchiuso in un involucro di titanio, allo scopo di valutare la microcircolazione ossea quando, dopo un trauma, l’osso cerca di guarire. Dopo nove mesi di studio cercò di togliere questo dispositivo ma non riuscì a staccarlo notando che l’osso era ricresciuto attorno al titanio, senza segni di infiammazione né reazione fibrosa. Il titanio si presentava biocompatibile con una osseo-integrazione all’osso dell’animale. Questa preziosa osservazione necessitava di una verifica, controllando se anche nell’uomo avveniva lo stesso processo.

Grazie alla comunicazione di queste ricerche divenne professore associato in Anatomia all’università di Goteborg. L’esperimento di compatibilità e integrazione con le ossa umane fu fatto, volontariamente, dai suoi assistenti e diede dei risultati che confermarono la biocompatibilità e l’integrazione dell’osso umano con il titanio. L’applicazione di questa scoperta sembrò ottima per gli impianti dentali che, con viti metalliche, inserite nell’osso della mascella o mandibola, attraverso la gengiva, divengono delle radici artificiali per le protesi dentali fatte con materiale ceramico.

Nel 1965 Branemark, che aveva con zelo e passione proseguito lo studio per gli impianti dentali, incontrò la signora Gosta Larson nata con malformazione del palato e mascella cui mancavano molti denti che si fece operare con l’impianto di un set di protesi dentali fisse con radici artificiali in titanio. L’intervento riuscì perfettamente sia nell’immediato che per i 45 anni della sua vita successiva; per cui la paziente ritrovò il sorriso e la possibilità di alimentarsi con la masticazione. Questo intervento fu dal mondo medico e specialmente odontoiatrico aspramente criticato come avveniva per ogni innovazione. Ma in seguito nessuno avrebbe dovuto dormire con i denti in un bicchiere.

Branemark è considerato il padre della moderna implantologia dentale, che è una branca dell’odontoiatria che ha l’obbiettivo di ripristinare i denti mancanti mediante l’inserimento di radici artificiali in titanio, procedura riabilitativa rivolta a chi ha perso i denti naturali.

Il titanio fu individuato nel 1791 dal reverendo William Gregor, mineralogista britannico, dalle rocce di ilmenite, successivamente fu isolato dal chimico tedesco Heinrich Klaproth, che lo battezzò col nome di titanio ricordando nella mitologia greca Titano, dodicesimo figlio di Gea e Urano.  

Il titanio, a differenza degli altri metalli, oltre che dalla leggerezza è conosciuto per la sua resistenza alla corrosione, quasi pari al platino, in quanto reagisce con l’ossigeno formando in superfice un sottile strato protettivo di ossido di titanio TO2, è abbastanza duttile, si trova maggiormente in Australia, Canada, Ucraina e Norvegia. In Italia in Liguria, in provincia di Savona, nel parco naturale del Beigua si trova un grande giacimento di titanio. Nel 1982 Branemark, alla Toronto Osseointegration Conference, presentò a tutto il mondo scientifico e accademico i risultati delle sue ricerche che grazie alla biocompatibilità e osseo-integrazione del titanio hanno aperto la strada sia alla moderna implantologia dentale che all’ortopedia moderna grazie alle protesi dell’anca e del ginocchio che ci permettono di camminare.


Lo studio dei vetri e la Medicina rigenerativa

Larry Hench. Nato in Ohio (1938-1915) ingegnere ceramico, presso la Ohio State University.Dopo 32 anni si era ritirato dall’Università della Florida come professore emerito per entrare a far parte dell’Imperial College di Londra come cattedra di materiali ceramici. Intorno alla metà del 1960 presso l’università della Florida studiava degli speciali vetri a base di fosforo e vanadio resistenti alle radiazioni ad alta energia per dispositivi a bordo dei satelliti. Successivamente si dedicò allo studio dei biomateriali grazie alla scoperta dei vetri bioattivi. Infatti, mentre si recava a New York per presentare le sue ricerche, casualmente, incontrò e parlò durante il viaggio con un colonnello reduce del Vietnam che gli chiese se esistesse un materiale resistente all’azione aggressiva del sistema biologico, in quanto i molti feriti nella guerra in Vietnam venivano amputati di braccia o gambe perché non c’era modo di trovare un materiale per riparare o ricostruire gli arti dilaniati dalle ferite. Hench, dopo questo dialogo, rimase impressionato al pensiero che per i feriti nelle guerre o negli incidenti per la mancanza di tessuto osseo non vi fosse nessuna soluzione terapeutica valida. Iniziò così a studiare la composizione delle ossa e rilevò che proprio la durezza e rigidità era data da un minerale a base di calcio e fosforo “l’idrossiapatite”, presente anche nei denti, e quindi lo stesso osso era un materiale ceramico vivente. Pertanto formulò l’ipotesi che se un materiale impiantato potesse formare uno strato superficiale di idrossiapatite il corpo lo riconoscerebbe come proprio e l’impianto si legherebbe all’osso senza essere rigettato come avviene per i metalli e le plastiche. Concentrò le sue ricerche per cercare di sintetizzare un materiale che, una volta impiantato, fosse accettato dall’organismo e si integrasse con l’osso in modo da sostituire porzioni ossee dovute a mutilazione o a traumi. Nel 1968 Hench e i suoi colleghi dell’Università della Florida presentarono per questa ricerca una richiesta di fondi all’US Army Medical Command che fu accettata. Il progetto parlava dello sviluppo di un materiale da usare come sostituto osseo capace di sviluppare in vivo uno strato superficiale di idrossiapatite. Nel 1969 Hench e i suoi collaboratori sintetizzarono un vetro bioattivo, il Bioglass 45S5 (fosfosilicato di calcio e sodio) che fu registrato dall’Università della Florida.

Per verificare le sue proprietà, minuscole parti di bioglass furono impiantate nel femore di un ratto; dopo sei settimane i campioni di questo vetro si erano ancorati saldamente all’osso senza forme infiammatorie. Si era trovato un materiale che presentava non solo una biocompatibilità ma una bioattività cioè la capacità di creare un legame chimico stabile coi tessuti viventi.

Molteplici sono le applicazioni del Bioglass 45S5 come innesti ossei, riparazioni di difetti paradontali, riparazioni craniali e maxillo-facciali. A metà degli anni ‘80 la FDA ha approvato l’uso di dispositivi di vetrobioattivo per ricostruire la catena degli ossicini dell’orecchio medio per ripristinare l’udito. Successivamente sono state approvate dall’FDA impianti di vetrobioattivo per sostituire denti, riparare sia i difetti ossei maxillofacciali che quelli delle malattie paradentali. Il Bioglass 4S55 può essere utile, ostruendo gli orifizi del tubulo dentinale, nel trattamento delle lesioni da ipersensibilità dentale oltre che offrire una protezione antibatterica con il biovetro S53P4. Innumerevoli riconoscimenti mondiali e premi sono stati dati a Larry Hench, autore di più di 800 pubblicazioni di ricerca, appassionato docente per i suoi studenti: inoltre autore di una serie di libri per bambini, anche per la costruzione di Boing Boing, il gatto bionico per un bambino che era allergico al pelo dei gatti.


Wiliam Buehler e i materiali a memoria di forma

Metallurgista in forze presso il Nol di White OAK nel Maryland presso lo U.S. Naval Ordinance Laboratory cercava un materiale per la parte superiore dei missili balistici per armare i sottomarini nucleari. Nella sua ricerca trovò, con la fusione, una lega di 50% di Nichel con il 50% di Titanio che fu chiamato Nitinol derivante da Nichel e Titanio. Questo materiale mostrò una ottima resistenza a corrosione e buona duttilità, flessibilità e una straordinaria memoria di forma. Infatti un oggetto in Nitinol piegato riacquista se riscaldato sempre la sua forma originaria e lo fa in un intervallo di temperature molto ampio in funzione della sua composizione atomica. Grazie a queste caratteristiche il Nitinol è stato usato in diversi campi ma, considerando quello biomedico, principalmente in ortodonzia, che si occupa di individuare e correggere i difetti di allineamento e occlusioni dentali. Precedentemente si sono usati fili di acciaio inossidabili fissato a delle placchette incollate su ogni dente, sostituito poi da uno speciale filo in lega di nichel e titanio. Oggi si realizzano archi ortodontici termo-attivi che riportano i denti in posizione, esercitando forze dolci costanti e calibrate. Con questo materiale sono stati fatti strumenti chirurgici odontoiatrici come limette sottili e resistenti per la devitalizzazione dei denti. Per intercettare e bloccare coaguli il filtro cavale Simon in Nitinol. Molto usato è lo stent che è un piccolo tubicino a rete metallica che può essere introdotto in organi cavi cioè a lume. Gli stent coronarici sono usati soprattutto nell’angioplastica. Come curiosità la parola stent in inglese significa inamidato, rigido, ma sembra possa essere riferita al dentista inglese Charles Stent (1807-1885) ideatore di stampi per impronte dentali.


Roy Plunkett

Nel 1938 Roy Plunkett nel tentativo di produrre un nuovo refrigerante, all’interno di una bombola contenente il politetrafluoroetilene (PTFE) trovò che si era formato, reagendo con il ferro della bombola, un nuovo materiale che presentava una elevata resistenza agli agenti chimici più aggressivi.

Nel 1941 la Kinetics Chemical brevettò questa sostanza con il nome di Teflon (PTEF) in seguito rilevata dalla ditta americana Du Pont. Il Teflon è costituito da polimeri con lunghe catene di atomi di carbonio dove sono attaccati atomi di fluoro. Questa nuova plastica presentava la completa inerzia alla gran parte dei composti chimici, ottima resistenza al fuoco e soprattutto è nota la sua proprietà antiaderente. Le applicazioni del PTEF sono numerose nell’industria, in architettura nelle coperture, nell’abbigliamento e uso in cucina con padelle e pentole antiaderenti.


John Charnley e la protesi d’anca

John Charnley (1911-1982) nato a Bury nel Lancashire, laureato in Medicina nel 1935, assunto nel Manchester Royal Infirmary, si era specializzato in Ortopedia interessato particolarmente al trattamento delle fratture ossee. Inoltre, si era occupato della patologia dell’anca che era spesso causata una artrosi legata all’invecchiamento, da fratture del collo femorale oltre che, nei tempi passati, da poliomielite o tubercolosi; tutte queste affezioni causavano intensi dolori e impedivano una normale deambulazione.

Charnley in una pubblicazione su Lancet nel 1961 aveva descritto la procedura chirurgica impiantando nei suoi pazienti protesi d’anca da lui stesso ideate. Purtroppo, questi impianti non solo duravano poco tempo, ma il teflon usato si usurava disseminando parti della sostanza che formavano granulomi e forme infiammatorie con il ritorno del dolore all’anca anche a riposo. Preso da sconforto fu aiutato dal suo fedele collaboratore Harry Craven, tecnico di laboratorio, cui era stato dato e raccomandato un altro materiale plastico il polietilene ad alto peso molecolare (scoperto per caso dal chimico tedesco Hans von Pechmann) composto da lunghe catene di carbonio che erano attaccate non più da atomi di fluoro, come nel PTFE, ma di idrogeno usato per produrre ingranaggi delle macchine tessili. Craven suggerì a Charnley di sostituire il teflon in questi interventi chirurgici con il polietilene. A questo punto Charnley sperimentò su sé stesso la biocompatibilità del teflon e polietilene facendosi porre sotto la pelle della coscia due segmenti di queste plastiche rilevando che il teflon gli aveva procurato una forma infiammatoria e reattiva con scomparsa del materiale, al contrario del polietilene che rimase integro senza nessuna reazione avversa.

Per questo Charnley iniziò, attento alla sterilità del campo operatorio, a fare gli interventi di artroplastica a basso attrito con coppa di polietilene e stelo femorale in acciaio inox usando per ancorare la protesi all’interno del femore il cemento acrilico al posto delle viti o manovre di incastro. Anche se con il progredire degli anni i materiali e interventi si sono modernizzati e migliorati, Charnley è da reputare il padre e iniziatore dell’intervento della protesi d’anca.


L’acido ialuronico

L’acido ialuronico (HA) fu causalmente scoperto nel 1934 dal biochimico tedesco Karl Meyer, professore associato alla Columbia University, e dal suo collega John Palmer isolando una molecola dall’umor vitreo degli occhi dei bovini che chiamarono ialuronico dal greco hyalos cioè vitreo.

Sempre Karl Meyer e coll. nel 1936 isolarono la parte attiva dal fluido sinoviale di alcuni pazienti colpiti da artrite reumatoide. Chimicamente l’acido ialuronico è un glicosamminoglicano non solforato che presenta una elevata solubilità in acqua. Grazie a questa sua proprietà, lo ialuronato è in grado di complessarsi con moltissime molecole di acqua raggiungendo un elevato grado di idratazione, per questo è in grado di mantenere l’idratazione, la turgidità, la plasticità e la viscosità, poiché si dispone nello spazio in una forma aggregata incamerando una grande numero di molecole di acqua.

Può agire come sostanza cementante, come molecola anti-urto; è inoltre lubrificante, nel liquido sinoviale. Lo troviamo nella pelle, nei tendini, nelle cartilagini, negli occhi, nel connettivo, nel cordone ombelicale e nell’aorta. Si è notata una diminuzione dell’acido ialuronico nel nostro organismo con l’avanzare dell’età. Più che a Karl Meyer, lo scopritore dell’acido ialuronico, l’intuizione della potenzialità di questa magica molecola e la sua commercializzazione è stata opera portata avanti per tutta la sua vita professionale da Endre Alexander Balazs (1920-2015). Endre Alexander Balazs nato a Budapest, laureatosi in Medicina nel 1942, ricercatore dopo il 1947 presso il Karolinska Institute di Stoccolma, si trasferì poi negli Stati Uniti. È stato direttore della ricerca oftalmica presso il Columbia-Presbyterian Medical Center dal 1975 al 1982 e arruolato nella New Jersey Inventors Hall of Fame nel 2012. Come curiosità, nel 1942 a Balzs, durante la seconda guerra mondiale, venne un’idea geniale che ebbe successo: sostituire l’albume dell’uovo con acido ialuronico per rispondere alle domande pressanti dei fornai che in quel periodo non trovavano più uova per i loro prodotti di pasticceria.

Altro successo in campo veterinario avvenne nel 1976 durante la XXI Olimpiade a Montreal che grazie ad una infiltrazione di Healon (acido ialuronico) intrarticolare al cavallo Rivage che, era zoppicante con scarse possibilità di successo, vinse dando l’oro alla Francia nel concorso ippico. Helaon era prodotto dalla ditta svedese Pharmacia su licenza della Biotrics americana facente parte di Endre Balazs. Questo prodotto non solo rimarrà in campo veterinario bensì diverrà un prodotto farmaceutico umano che con successo verrà usato nelle infiltrazioni intrarticolari per il ginocchio, per la spalla, per l’anca sia a scopo antalgico che per migliorare le funzioni motorie procrastinando così gli interventi di protesi.

Sempre l’acido ialuronico è stato introdotto in ambito oculistico per l’impianto di lenti intraoculari. Infine in campo dermatologico ed estetico come filler accanto al collageno. In Medicina i filler (da to fill, riempire) sono materiali che vengono iniettati nel derma o nel tessuto sottocutaneo allo scopo di riempire una depressione o di aumentare il volume. La produzione di acido ialuronico non avviene più da parti di organismi viventi come l’umor vitreo, trachea bovina, creste di galli, ma da fermentazione batterica. Il merito di Balazs, oltre che aprire all’acido ialuronico un enorme campo di applicazioni mediche, è anche quello di aver studiato la natura della matrice extracellulare dove lo stesso acido ialuronico riveste una notevole importanza.


La storia dei biomateriali

La storia dei biomateriali si può riassumere in tre tappe fondamentali:

  1. biomateriali di prima generazione: il requisito fondamentale per il materiale è di essere bioinerte, ovvero biocompatibile, l’obbiettivo è ottenere una combinazione adeguata di proprietà fisiche uguali a quelle del tessuto sostituito, con una tossicità minima;
  2. biomateriali di seconda generazione: si richiede al materiale di essere bioattivo, ovvero di provocare azioni e reazioni controllate nell’ambiente fisiologico, o riassorbibile, cioè degradarsi chimicamente e riassorbirsi in maniera controllata in modo di essere sostituito dal tessuto che lo ospita (pioniere nel 1968 Larry Hench);
  3. biomateriali di terza generazione: il materiale deve essere sia bioattivo che riassorbibile e biodegradabile.

La scoperta dei biomateriali o composti è iniziata fra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900 da parte principalmente di chimici.

I biomateriali si possono classificare in base alla natura chimica del materiale stesso in:
- metallici,
- polimerici,
- ceramici,
- composti.

Per esempio il titanio, la ceramica, l’idrogel, le plastiche e collageno sono alcuni dei tanti biomateriali che fanno parte della nostra quotidianità. Infatti in campo oculistico con le lenti intraoculari milioni di persone sono state operate di cataratta, in campo ortopedico sono frequenti le protesi d’anca e di ginocchio, in odontoiatria con l’implantologia dentale e infine vi è stata un’ampia applicazione di stent in angioplastica.       

Dopo aver letto il libro di Devis Bellucci “Materiali per la vita- Le incredibili storie dei biomateriali che riparano il nostro corpo”, Ed. Bollati Boringhieri, che consiglio caldamente di leggere, mi sono entusiasmato del suo contenuto, e ho cercato di ripercorrere le storie, le intuizioni, la costanza, il coraggio sia nei risultati positivi, che negativi, che li accompagnava durante le loro ricerche che spesso venivano ampiamente criticate dal mondo medico e accademico.

La storia dei biomateriali ci ha dimostrato che solo una collaborazione multidisciplinare tra medici, chimici, ingegneri, fisici e biologi può produrre, come nel passato, oggi ancora di più risultati eccezionali per la salute e il benessere umano.  

Terminerei con le considerazioni finali di Devis Bellucci: “la scienza dei biomateriali cerca di corroborare un nostro profondo desiderio: scrollarci di dosso il tempo, appianare le imperfezioni, abbattere se non la mortalità della natura umana, almeno i segni del suo impietoso avvizzire”.