Anno Accademico 2020-2021

Vol. 65, n° 4, Ottobre - Dicembre 2021

Simposio: Pandemia COVID-19: facciamo il punto su…

15 giugno 2021

Copertina Atti quarto Trimestre 2021 per sito.jpg

Versione PDF dell'articolo: Download

Pandemia Covid-19. I vaccini

G. Ippolito

In questo mio intervento non proverò a dare soluzioni, bensì identificare problemi. Cercherò di analizzare quello che sta accadendo in questi giorni, soprattutto in relazione ai vaccini a vettore adenovirale.

Il primo aspetto da sottolineare è che, grazie agli ingenti investimenti per ricerca, oggi abbiamo tanti vaccini, con la prospettiva di averne tanti altri. Al 10 giugno, data dell’ultima analisi settimanale disponibile sul Bollettino Covid dell’INMI curato da Salvatore Curiale, erano presenti 326 candidati vaccinali in diverse fasi di sviluppo; 106 in fase clinica, tra i quali 38 ad RNA, 65 a vettore virale e 26 a virus attenuato o inattivato. 35 di questi candidati vaccini sono in fase 3, 40 in fase 2 o 1/2, e 31 in fase 1. A questa corsa partecipa tutto il mondo, l’elenco dei paesi per numero di candidati vaccinali è lunghissimo e dimostra come gli scienziati di tutti il mondo si stanno sforzando per la ricerca di possibili soluzioni: uno sforzo senza precedenti.

Tra questi candidati vaccinali, 15 sono già stati approvati per l’utilizzo, ma non sono gli stessi in tutto il mondo. È mancata una istituzione internazionale in grado di definire un modello unitario di approccio, di modi e tempi di valutazione, di procedure minime da seguire. Per questo le agenzie regolatorie dei singoli paesi hanno quindi stabilito modelli e percorsi di approvazione dei vaccini molto diversi tra loro e basati su sistemi assolutamente indipendenti.

Il panorama è in continua evoluzione: un esempio per tutti, proprio in questi giorni un’agenzia federale americana ha annunciato lo sviluppo di un vaccino a vettore virale + RNA. Non tutti questi vaccini probabilmente arriveranno alla fine del loro sviluppo, ma daranno comunque un grande aiuto alla ricerca.

In Italia ed in Europa abbiamo 4 vaccini approvati diversi tra loro, due a mRNA e altrettanti a vettore virale non replicativo. Giova ricordare che ci sono candidati vaccini in fase avanzata che lavorano a particelle simil-virali, a subunità proteiche, a virus vivo attenuato, a virus inattivato. Il primo vaccino a virus inattivato che potrebbe essere approvato in Europa potrebbe essere basato sul virus isolato allo Spallanzani nel gennaio 2020. Abbiamo poi i vaccini a DNA, e anche in questo caso c’è un candidato italiano, al momento in fase 1.

Ci si potrebbe chiedere perché vengono sviluppati tanti vaccini. La risposta è semplice: avendo modalità di azione diverse si ipotizza che possano dare indurre risposte diverse ed avere effetti indesiderati diversi, pertanto essere meglio utilizzati in singole popolazioni di soggetti, in contesti geografici diversi, per le prime dosi ed eventuali dosi successive.

Una domanda frequente in questo periodo è come si misura l’efficacia della vaccinazione? È importante sottolineare che il dosaggio degli anticorpi dopo aver effettuato la vaccinazione è del tutto inutile, come ribadito dalle principali agenzie internazionali. In realtà il dosaggio fornisce solo una informazione indiretta in quanto l’efficacia è determinata sia dall’immunità T che da quella B.

Quindi i vaccini a mRNA sono oggi quelli che appaiono più promettenti, hanno dimostrato di dare buone risposte sia a livello cellulare che umorale, con livelli di efficacia molto elevati. Questi vaccini, che hanno dimostrato dopo dieci giorni dalla prima dose una risposta importante, sono quindi diventati il nuovo standard verso cui il mondo occidentale si è orientato. Un’analisi effettuata recentemente ha dimostrato che i due vaccini ad mRNA hanno efficacia al 95%, mentre i vaccini a vettore adenovirale o a proteine ricombinanti Novavax, danno risposte inferiori. I dati cambiano molto rapidamente anche in relazione all’incremento del numero dei vaccinati ed all’accumularsi delle informazioni. Per Novavax è stato riportato in una recente conferenza stampa che avrebbe un’efficacia superiore al 90%, contro il 70% del vaccino Astra Zeneca, il 66% del vaccino Johnson & Johnson, il 50% del vaccino cinese Coronavac. Questi numeri sono però da leggere con molta attenzione. Anthony Fauci lo scorso gennaio aveva affermato che il vaccino Novavax proteggeva al 90% e per oltre il 50% nel caso delle varianti, e che funzionava in maniera egregia in Sud Africa dove la variante B.1.351 era presente nel 92% dei casi. Gli studi che si vanno accumulando ci dimostrano che il livello di efficacia dei vaccini può differire a seconda di dove gli studi vengono effettuati e delle varianti circolanti in quel momento.

Il vaccino Coronavac, che inizialmente era stato valutato avere una efficacia intorno al 50%, in realtà sulla base dei dati delle vaccinazioni in Cile, dove è alla base della strategia vaccinale del paese, si è dimostrato capace di prevenire i casi sintomatici nel 67%, il ricovero ospedaliero nell’85%, il passaggio in terapia intensiva nell’89% e la morte nell’80%; quindi un vaccino che prima sembrava mediocre, con una efficacia del 50%, ha avuto nel “mondo reale” un ottimo risultato.

Il vaccino sviluppato da Rheitera insieme allo Spallanzani ha dimostrato un livello di immunogenicità assolutamente buono rispetto ai controlli sia nelle fasce di età 15-55 anni che 65-85 anni, confermando a pieno il dato che era già emerso nei test in vitro, su modelli animali e su primati non umani.

Man mano che aumentano le vaccinazioni si accumulano sempre nuove evidenze. Andando a valutare l’efficacia pratica della prima e della seconda dose, oggi sappiamo che soggetti infettati già dopo aver ricevuto solo la prima dose di vaccino hanno un ridotto rischio di sviluppare sintomi, altri solo sintomi minori come ageusia o anosmia. Il rischio di infettarsi e di poter trasmettere il virus non si azzera con la vaccinazione, ma in ogni caso a partire da 2 settimane dalla seconda dose il rischio di malattia diventa trascurabile.

Un aspetto che merita molta attenzione sia sul piano scientifico che su quello comunicativo è il caso dei vaccini a vettore adenovirale, ed in particolare il vaccino AstraZeneca. In America questo vaccino non è stato autorizzato, mentre dove, come in Europa, il suo uso è autorizzato, l’emergere di rari episodi trombotici legati alla vaccinazione in soggetti giovani ha determinato indicazioni di utilizzo diverse da paese a paese, con livelli di età per le quali il vaccino è consigliato variabili dai 30 ai 60 anni. In Norvegia si è ritenuto di rendere disponibile l’altro vaccino adenovirale registrato in Europa (Janssen/Johnson & Johnson) con l’indicazione che sono gli individui a poter effettuare una scelta consapevole. In Italia le indicazioni dell’AIFA prevedono che il vaccino possa essere utilmente impiegato per coloro che rientrano in determinate categorie:

- persone che devono viaggiare verso paesi con alto tasso di infezione o comunque zone dove si ritiene che i benefici della vaccinazione siano superiori ai rischi;
- persone che vivono vicino ad altre non vaccinate e che dovrebbero attendere troppo per avere un altro tipo di vaccino;
- persone che convivono con familiari che soffrono di patologie oncologiche o che effettuano trattamenti immunosoppressivi, se il medico ritiene che i benefici possano essere superiori ai rischi;
- pazienti con patologia psichiatrica a rischio per la vita, o con scarsa qualità di vita a causa di isolamento protratto o misure restrittive;
- in ogni caso, se il medico ritiene che i benefici possano essere superiori ai rischi.

A creare il maggiore allarme sono stati rarissimi casi di alterazione della coagulazione, alcuni anche gravi, verificatisi dopo la somministrazione del vaccino, denominati VITT (Vaccine-induced Immune Thrombotic Thrombocytopenia). La prima analisi pubblicata su Nature Medicine dimostra che, mentre per il vaccino Pfizer per questa condizione il numero di casi attesi e quelli effettivamente verificati sono simili, per il vaccino AstraZeneca la differenza tra l’atteso e l’osservato era tra 2 e 4 volte superiore tra i vaccinati rispetto alla popolazione generale.

Un’altra analisi sul vaccino Johnson & Johnson effettuata in Sud Africa non ha confermato l’ipotesi di danni neurologici o muscolari, bensì una differenza statisticamente significativa circa gli effetti relativi a eventi cerebrovascolari, embolie polmonari e emorragie maculari.

Dal 20 aprile in avanti la situazione è andata radicalmente cambiando. Innanzitutto è cambiata la definizione di “caso”: la trombocitopenia con trombosi è caratterizzata da trombosi arteriosa o venosa, particolarmente in siti inusuali come i seni venosi cerebrali o il territorio splancnico, con trombocitopenia da moderata a grave e con la positività del Fattore piastrinico 4. Queste sono le condizioni che hanno destato allarme e disorientato l’opinione pubblica, dal momento che i primi casi erano tutti in persone di età inferiore ai 50 anni (solo uno aveva più di 70 anni), nessuno aveva ricevuto eparina, pochi presentavano fattori di rischio per trombosi, ed un terzo di questi era morto. A questo punto è stato rimesso in discussione il sistema delle trombosi a carico dei seni cerebrali, e il 14 aprile la Food and Drug Administration degli Stati Uniti ha effettuato una rivalutazione dei casi verificatisi nel paese con il vaccino Johnson & Johnson. Il risultato evidenziava 6 segnalazioni di trombosi dei seni cerebrali con trombocitopenia < 150.000/mm3 su 6 milioni di dosi somministrate, quindi 0,87 casi/milione contro 0 su 97 milioni per il vaccino Pfizer e 3 su 84,7 milioni per il vaccino Moderna: una differenza statistica che ha quindi indotto una prima riflessione.

I dati sono stati riesaminati all’inizio di giugno 2021: dopo aver analizzato ulteriori dati, 2.7 milioni di dosi di Pfizer e 2.5 milioni di dosi di Moderna, sono stati evidenziati 10 casi di eventi cerebrovascolari, di cui 5 senza trombocitopenia; diversamente da quanto accade con Astra-Zeneca, in cui si dimostra un aumento degli eventi cerebrovascolari trombotici ed emorragici.

Due nuove analisi su 500.000 persone hanno confrontato l’incidenza di eventi trombotici in soggetti con malattia Covid-19 e in soggetti invece sottoposti a vaccinazione con vaccino a mRNA, confermando che la malattia di per sé stessa è altamente trombogena. È necessario analizzare i meccanismi indotti dai vaccini a vettore virale che facilitano lo sviluppo di fenomeni embolici in qualche modo simili a quelli della malattia naturale, anche se con frequenze e gravità assolutamente inferiori.

L’Università di Cambridge inoltre, su mandato dell’EMA, ha eseguito un’analisi totale dei casi Astra-Zeneca. Limitandoci ad osservare i dati italiani e confrontando i benefici potenziali e i danni potenziali del vaccino Astra-Zeneca contro Covid-19 in situazione di alto, medio e basso rischio di contagio differenziati per fasce d’età, si vede che nella situazione di rischio alto il rischio di eventi trombotici superava il beneficio della vaccinazione nelle fasce sotto i 30 anni, in situazione di rischio medio sotto i 40 di età, nella situazione di basso rischio, fatta eccezione per la fascia di età 50-59 anni, il danno potenziale derivato dall’uso di questo vaccino è ancora più elevato. Da qui la decisione di riservare questo vaccino alle persone con una età di oltre 60 anni e di ricorrere per gli immunizzati con una prima dose alla “heterologous prime-boost vaccination”, ovvero utilizzare il vaccino a mRNA per la seconda dose dei soggetti vaccinati con una prima dose di vaccino ad adenovirus. Questa possibilità trova alla fine della primavera 2021 basi scientifiche su 5 studi totali, tra cui uno spagnolo e uno inglese. Quest’ultimo recentemente aggiornato: dopo “prime-boost” tra vaccino Astra-Zeneca e vaccino Pfizer si è verificato così un aumento dei casi di febbre e di malessere che comunque non hanno compromesso la praticabilità di questa soluzione.

Un altro dato di grande discussione e che merita attenzione è costituito dalla segnalazione di casi di miocardite in bambini vaccinati: nel momento in cui si sta avviando a vaccinare le classi di età più basse, questo costituisce sicuramente argomento di riflessione.

Quanto dura l’immunità dopo la vaccinazione? Un lavoro pubblicato su Nature all’inizio di giugno 2021 ha dimostrato la presenza di cellule staminali ancora attivate almeno 7-8 mesi dopo il completamento del ciclo vaccinale, cosa che invece non troviamo in persone che non hanno avuto la malattia. Allo stesso modo nelle persone che hanno superato l’infezione un anno dopo la malattia troviamo ancora anticorpi neutralizzanti.

In conclusione, i vaccini salvano la vita, e il loro utilizzo va sempre inquadrato in una valutazione rischio/beneficio: soluzioni a rischio zero, purtroppo, non ne esistono. Abbiamo superato la prima e la seconda ondata, forse dovremo superarne una terza, dobbiamo ancora rispondere a vari interrogativi e definire le strategie prioritarie: quanti morti vogliamo evitare? quanti anni di vita vogliamo salvare? Questi sono gli argomenti che dobbiamo spiegare per bene alle persone che non si vogliono vaccinare, che hanno una esitazione nei confronti dell’immunizzazione. Dati, ancora di 4 mesi fa, danno comunque l’Italia come uno dei paesi con più bassa esitazione vaccinale.

La storia è ancora lontana dalla conclusione. Ci sono quesiti aperti ai quali dobbiamo ancora rispondere:

- al momento abbiamo ancora pochi dati disponibili su sicurezza ed efficacia;
- non conosciamo la durata della protezione;
- non conosciamo praticabilità e disponibilità reali;
- non sappiamo bene cosa accade nelle persone anziane o con altre condizioni cliniche;
- non sappiamo se i vaccini prevengono la trasmissione del SARS-CoV-2 o proteggono solo contro la malattia.

Bisogna avere un po' di ottimismo, cercare le evidenze, essere prudenti. Nell’ultimo periodo in Inghilterra i casi stanno aumentando a causa delle varianti, stanno aumentando i casi ma non stanno aumentando parallelamente i morti; comunque in quel Paese sono state messe in atto di nuove misure restrittive in previsione della programmata riapertura del 19 luglio 2021.

Infine bisogna ricordare che l’efficacia dei vaccini appare essere tra il 60 e il 90%, ma la prudenza, il rispetto delle regole anche quando la situazione migliorerà ulteriormente, l’avanzamento delle conoscenze scientifiche e, soprattutto la capacità degli individui, di rispondere al virus una volta che il livello di vaccinati nella popolazione sarà elevato ci permetteranno di convivere con il virus. Ma basterà pensare che tutto è finito per ritrovarci in tempi brevi nella situazione dello scorso anno.