Prof. Marcello Carlino

già Docente di Letteratura Italiana Contemporanea, “Sapienza” Università di Roma

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2020-2021

Vol. 65, n° 1, Gennaio - Marzo 2021

Seduta Inaugurale

10 novembre 2020

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Prolusione. La medicina nella Commedia di Dante: luoghi, motivi, funzioni

M. Carlino

Papini non è il solo a documentare come e quanto la vita di Dante, per la grandezza e la fama del poeta, sia stata accompagnata da un fiorire di leggende; alcune di esse, come agli studiosi è noto, concernono la sua competenza nelle arti mediche, che è facile, in età medievale, finiscano confuse con le arti magiche. Così accade – lo rammenta appunto Papini nella Leggenda di Dante,che riporta stralci di un processo di fatto istruito– che Galeazzo Visconti millanti di poter ottenere da Dante i risultati devastanti sperati, quando lo voglia incaricare di un sortilegio a danno di papa Giovanni XXII e quando abbia deciso di rescindere il contratto con il mandatario scelto dapprincipio, che mostra di temporeggiare troppo nel compiere il maleficio; e accade che una nota conservata nell’Istituto di Medicina dell’Università di Montpellier, dove ha sede l’archivio dell’antica e prestigiosa scuola medievale, attribuisca a Dante la compilazione di una ricetta in versi che nomina gli ingredienti officinali, le dosi e le modalità di realizzazione di una pozione utile per il reperimento della pietra filosofale, pozione che Dante alchimista prescriverebbe si debba far bere al nemico o concorrente del cercatore. Millanterie, favole, fake news: la stessa ricetta di cui si è appena detto è evidentemente un falso, poiché neanche per gioco o per occasionale tenzone comica quei versi sono di mano di Dante, che ha tutt’altro linguaggio e tutt’altro stile anche nelle sue non rare composizioni grottesche destinate alle apposite gare pubbliche tra poeti. False e senza fondamento, infine, sono le dicerie che al contrario lo vorrebbero santo guaritore, di cui nelle fantasiosissime cronache del secolo XIV e nella successiva novellistica d’invenzione, spesso tinta di umorismo e di ironia.

Sicuro è, però, che Dante seppe di medicina: quest’arte – tale la si definiva nel Medioevo – appartiene infatti al suo corso di formazione, al suo bagaglio culturale, al suo campo di interessi; e talune pagine del Convivio ne sono prova. E sicuro, contestualmente, è che la medicina allora, e ancora per qualche secolo dopo, si caratterizza per una certa prossimità con le pratiche di magia e con le fole irrazionalistiche che le motivano, mentre pure, sulla base delle teorie filosofiche dominanti e del credo della Chiesa, essa implica una sua proiezione teleologica verso il percorso della fede e della redenzione, alias guarigione, dal peccato. Tuttavia la lezione di Ippocrate, anche riveduta alla luce dell’aristotelismo, e quella di Galeno vi si sono tramandate e vi perdurano, la prima legata al concetto di armonia vitale e di equilibrio degli umori, la seconda orientata più marcatamente allo studio organicistico e alla analisi funzionale degli apparati del corpo; frattanto la Scuola Salernitana ha lasciato in eredità una serie di protocolli di interventi di prevenzione e di cura e l’Università di Bologna, con il suo istituto ad hoc, attraverso le dissezioni anatomiche e i relativi approfondimenti sui reperti, ha aperto e cominciato a tracciare un sentiero nella direzione di un esercizio empirico, marcatamente sperimentale e nella sua specificità, all’altezza delle più aggiornate conoscenze di quegli anni, intenzionalmente scientifico. Non è vano, a quest’ultimo riguardo, ricordare che Dante soggiornò a Bologna e, secondo alcuni, la cui tesi è però fortemente dubbia, vi compì una parte dei suoi studi. Immaginarselo sbirciare, potendo, in una sala anatomica a lavori in corso è certamente plausibile.     

Non la esercitò in alcun modo, ma aveva – tanto ormai si conviene – cognizioni puntuali di medicina, i cui fondamenti e le cui frontiere, nell’età medievale, sono stati poco sopra brevissimamente riassunti. Domandarsi, a questo punto, quali tracce di questo suo particolare sapere si conservino nella sua opera, e in specie nella Commedia, richiede che si proceda in premessa ad alcuni chiarimenti di metodo e preliminarmente alla risoluzione di alcune questioni.

Appare tutt’affatto fuorviante la scelta di chi utilizza alcune spiccate competenze di Dante nella descrizione di stati patologici per ricavarne conclusioni da spendere nella ricostruzione della biografia del poeta: è la scelta di servirsi della Commedia e delle opere collaterali come test diagnostici in esercizio sull’autore: una topica colossale sotto un profilo critico-teorico, un aberrante disconoscimento delle procedure e della logica specifiche del testo letterario, in cui per esempio è incorso Lombroso, supponendo forme ed episodi di narcolessia nel vissuto di Dante, a partire dalle perdite di sensi che si rappresentano colpire Dante personaggio nel viaggio ultraterreno del poema.

Altrettanto implausibile è trasporre e diluire in grandi narrazioni metaforiche la presenza e gli usi testuali della medicina nella Commedia, assimilando il cammino di riscatto dal peccato, e di conseguimento della grazia che vi si compie, ad un processo che dalla malattia, ossia dallo storno dalla diritta via, l’Inferno, attraverso la terapia, i riti lustrali di purificazione del Purgatorio, arriva alla guarigione, cioè al raggiungimento della pienezza dell’essere nella luce di Dio, il Paradiso. Una assimilazione siffatta, non discara a interpretazioni di marca lato sensu psicoanalitica catturate dal fascino dell’universo dei simboli e degli archetipi, si deve riconoscere che è metodologicamente sbagliata, perché non considera l’in sé del testo, ma al testo si sovrappone recando per giunta improprietà esegetiche e comunque scarsissime utilità di significato.

È buona norma di una critica letteraria, che si voglia autorevolmente fondata, stare ai fatti e dunque al testo, a ciò che il testo mostra quando si operi un’anamnesi rigorosa; e la Commedia, di cui qui interessa riferire (altri affioramenti, come si è suggerito, compaiono nel Convivio), dice di alcuni cenni, diretti ovvero riflessi, al sapere della medicina: pochi e nondimeno rilevanti, semioticamente importanti. Del resto nella poetica dantesca, come nell’estetica medievale, un’opera della ricchezza e della complessità della Commedia, che è una combinazione di generi e si può leggere quale uno straordinario prototipo di romanzo, indirizza le sue finalità ad un obiettivo morale di persuasione del lettore e per essa pretende, accorpando temi e motivi, che il potere di coinvolgimento della scrittura letteraria si sostenga sopra la ricchezza della cultura e la varietà delle informazioni destinate a chi accosta, il più delle volte per ascolto da reading, il poema. La Commedia, anche in ragione di questo suo impegno programmatico, si propone come un’opera totale e come una speciale enciclopedia del sapere: vi stanno a dimora, così, numerosi elementi di matematica, di astronomia, di geografia, di filosofia, di teologia e di altre scienze. Vi stanno a dimora, allo stesso titolo, conoscenze di medicina: che valgono come pillole di cultura al servizio del lettore, che valgono come riferimento della narrazione alla concretezza dell’esperienza comune, che valgono come composti efficaci e additivi dell’espressione poetica e della sua resa semantica.

Lungo queste vie d’accesso veniamo dunque ai luoghi di interesse medico della Commedia.

Dante, va subito detto, non fa mancare il suo omaggio ai padri fondatori della medicina. Nel limbo, è noto, trovano posto, secondo la dottrina della fede di allora (per tanti secoli rimasta invariata quanto ai delitti e alle pene), anche coloro che, vissuti prima dell’avvento di Cristo, non poterono essere battezzati e redenti dal peccato originale, e ciò nonostante nulla sia addebitabile al loro volere e molto viceversa abbiano ben meritato nella loro esistenza. Dante, che non sembra farsene pienamente persuaso ed è prossimo a ritenerla un’ingiustizia (del resto la venerazione per Virgilio rappresenta in materia un indizio probante), ammette che Cristo, come con Adamo e con i profeti, possa scendere nell’inferno e portare in cielo queste anime nobili, autorizzando per esse un apposito lasciapassare verso il paradiso; concede loro, nelle more, di abitare un’oasi nel limbo stesso, una location concepita alla maniera dei virgiliani campi elisi, nella quale è data libera possibilità di incontro, di confronto, di otium condiviso che conforta il piacere della conoscenza. Del castello degli spiriti magni, nelle cui adiacenze si sono avvicinati a Dante i compagni di Virgilio nella più alta poesia epica, sono nominati quanti vi eleggono domicilio. Tra di essi, giusto agli sgoccioli del canto IV dell’Inferno, vi sono, con Avicenna, Ippocrate e Galeno: il catalogo, usuale nella forma contemporanea del sirventese, fa conto in chiusura del loro contributo alla scienza e alla cultura, alla storia dell’umanità, un contributo da pantheon degli uomini illustri, che nella sua integrità documenta non poco del bagaglio di formazione dantesco di provenienza dall’antichità classica: «… e vidi Orfeo / Tulïo e Lino e Seneca morale; / Euclide geomètra e Tolomeo, / Ipocràte, Avicenna e Galïeno, / Averoìs che ‘l gran comento feo» (vv. 141-4).

Ad Ippocrate, per giunta, Dante riserva più avanti un elogio, che sottolinea quanto egli ha fatto nella vita terrena per il bene comune: «L’un si mostrava alcun de’ famigliari / di quel sommo Ipocràte che natura /alli animali fe’ ch’ella ha più cari» (Purg., XXIX, vv. 136-8). È particolare di forte rilievo che la scienza ippocratica, la quale ha saputo “raccomandare” alla natura una maggior attenzione e una più generosa benevolenza per l’uomo, funga qui da professionale nota caratteristica dell’evangelista Luca e sia qualche verso prima introdotta da una rappresentazione allegorica, un vero e proprio carro allegorico animato dalle virtù teologali.

Ippocrate, appunto; nella Commedia, eancor prima nel Convivio e nella stessa Vita Nova, il lemma “salute” è adoperato prevalentemente nell’accezione di “salvezza”. L’autentico benessere consiste, giusta la teologia, nella totale rispondenza all’amore di Dio, che ci salva. Così: «Poi che le sponsalizie fuor compiute / al sacro fonte intra lui e la fede / u’ si dotar di mutua salute» (Par., XII, vv. 61-3; il protagonista è san Domenico, che ha corroborato e salvato la fede, avendone ricevuto salvezza); e così nella preghiera alla Vergine di san Bernardo, che rammenta come l’ultimo e più perfetto compimento della salvezza si ottenga dalla visione di Dio e con Dio coincida: «Or questi, che da l’infima lacuna / de l’universo infin qui ha vedute / le vite spiritali ad una ad una, / supplica a te, per grazia, di virtute / tanto che possa con li occhi levarsi / più in alto verso l’ultima salute» (Par., XXXIII, vv. 22-7). Epperò, che vi sia una correlazione proporzionale, una sorta di cordiale entente, tra la salute del corpo, quale disposizione armonica delle sue parti e dei suoi costituenti, e la salvezza o la beatitudine delle anime è indicato dai versi che seguono: «Li cerchi corporai sono ampi e arti / secondo il più e il meno de la virtude / che si distende per tutte lor parti. // Maggior bontà vuol far maggior salute; / maggior salute maggior corpo cape, / s’elli ha le parti ugualmente compiute» (Par., XXVIII, vv. 64-9). È realizzata una voltura delle idee ippocratiche in un significativo allaccio di corrispondenze: tra corpo fisico-materiale e corpo celeste, tra salutare armonia delle componenti dell’organismo animale e capienza della salvezza o vicinanza a Dio (o approssimazione del cerchio dei beati all’Ente creatore): Ippocrate coopera a suffragare Dante e la sua concezione teologico-filosofica con il concetto di armonica coesistenza degli elementi e dei flussi umorali, che è la base della sua medicina che potrebbe dirsi olistica ed è il presupposto della condizione ottimale degli organismi. Così nella Commedia – e questo appena citato è l’unico momento in cui il processo è esplicitato – giungono a sintesi in uno scambio metonimico i due significati, storico-materiale e metafisico-ideale, del termine “salute”. Ippocrate, con i suoi principi e le sue regole, concorre a farsene garante.

Restando nel campo delle relazioni facenti leva sulla metonimia (che qui ha gran valore), è rimarchevole che l’astratto di una parola, che risiede nell’insieme semantico dei “rimedi” o dei “cambi positivi di stato”, sia reso con atto surrogatorio attraverso il concreto, il particolare dell’oggetto-segno “impiastro”: «Così mi fece sbigottir lo mastro / quand’io li vidi sì turbar la fronte, / e così tosto al mal giunse lo ‘mpiastro; // che, come noi venimmo al guasto ponte, / lo duca a me si volse con quel piglio / dolce ch’io vidi prima a piè del ponte» (Inf. XXIV, vv. 16-21). Il preparato medicamentoso agglutinato, largamente in uso nell’età medievale, trova impiego letterario nella bolgia infernale dei ladri, per dire del repentino rasserenarsi di Virgilio e, appartenendo all’esperienza quotidiana del lettore, per interessarlo a quanto è narrato e portarlo dentro la manovra, pensata dal poeta latino e poi perfettamente riuscita dando di piglio al pellegrino come farebbe padre con figlio, di superare la balza, la “ruina” frappostasi lungo il cammino in Malebolge (il fine delle sequenze metonimiche, come delle tante straordinarie similitudini, è proprio quello, per lo più, di associare l’invisibile al visibile, l’universale al particolare, l’insolito al consueto di cui è più facile avere avvertenza come nucleo potenziale di articolazione narrativa). Nel medesimo campo di operazioni, prodromo di atmosfere di racconto, un compito espansivo assume la pronuncia, nel I dell’Inferno, di una metafora che trova applicazione nei repertori di medicina del tempo di Dante: «Allor fu la paura un poco queta, / che nel lago del cor m’era durata / la notte ch’i’ passai con tanta pieta» (vv. 19-21). Se, come in quei repertori è scritto, e come rammenta lo stesso Boccaccio, con questa inesatta e fantasiosa definizione si intendeva una cavità intorno al muscolo cardiaco, nella quale, in circostanze di stress fisico ed emotivo, si riteneva confluisse il sangue cosicché la circolazione ristagnava e si determinavano squilibri o temporanei deficit funzionali, non mi sembra possano esserci dubbi che una siffatta espressione metaforica, sul cominciare della Commedia, abbia una notevole carica suggestiva (per altro rinforzata dalla rima “queta”-“pieta” e dalla misurazione della durata temporale, che si dilata per l’ambientazione della scena nella notte dell’anima). E che sia tale, pertanto, da colpire il lettore, sia perché richiama il valore simbolico tra fisico e metafisico del sangue e della sua variata fenomenologia (fiumi di sangue scorreranno poi nella rete idrografica tra cerchi e gironi; e il sangue sarà candidato a dominante nella prima cantica), sia perché inquadra in primo piano e correda il sentimento della paura, che ora monta ora s’attenua, e che nella sua umanità invita il lettore all’empatia e alla partecipazione –  con completa sospensione dell’incredulità – alla strabiliante vicenda del pellegrino dell’oltretomba, sia perché si candida a premessa di ulteriori catalisi o tinteggiature d’atmosfera nel prosieguo dell’intreccio. I mancamenti di Dante, cammin facendo, non sono affatto imputabili, come invece voleva Lombroso, alla riemersione inarrestabile di episodi realmente vissuti dall’autore, che si conquistano la vetrina dei versi del poema; sono segni, al contrario, di una forte esposizione, fortemente esemplare e provvista di marcate finalità persuasive, alle sollecitazioni parossistiche che squassano gli spazi infernali e corrodono la capacità di resistenza di un uomo che si immagina li pratichi da vivo (e infatti – Inf., III, vv.133-6 – «La terra lagrimosa diede vento, / che balenò una luce vermiglia / la qual mi vinse ciascun sentimento; / e caddi come l’uom cui sonno piglia»); e sono accenti posti su di una umana e partecipe considerazione della forza trascinante dell’amore, alle cui piene e alle cui pene Dante personaggio, in un concentrarsi di emozioni che riempiono il suo “lago del cor” e che gli causano uno svenimento, sa di poter essere esposto: «Mentre che l’uno spirto questo disse, / l’altro piangëa, sì che di pietade / io venni men così com’io morisse. // E caddi come corpo morto cade».

È palese che la medicina trova nell’Inferno motivi e funzioni più numerosi e stringenti per essere evocata. A parte l’episodio paradisiaco del concerto armonico sulla nota polisensa della salute, che sopra abbiamo ricordato, a parte una circostanza del Paradiso che sarà più in avanti oggetto di una breve annotazione, e a parte il lavaggio degli occhi, che ha addentellati con episodi celebri delle sacre scritture e che pure è una pratica di salvaguardia dell’organo della vista di base alle misure di prima igiene della medicina popolare, lavaggio dalla gromma e dagli agenti patogeni dell’inferno con cui Dante è messo in condizione di salire sulle balze del monte del purgatorio, non vi sono nelle ultime due cantiche della Commedia richiami circoscritti e definiti alla medicina. Che sono viceversa non rari e nient’affatto generici nel primo regno dell’oltretomba; e non è davvero difficile spiegarne le ragioni.

Intanto l’Inferno con i suoi spazi abitati dalla sofferenza, tra afflizioni e torture e urla laceranti, tra paludi maleodoranti, piogge di fuoco ed eterne ere glaciali, è per le sue stesse caratteristiche orogenetiche, geologiche ed ambientali, il più consono al prodursi e al manifestarsi di sindromi morbose croniche, incurabili. E poi l’Inferno è un mondo di corpi – corpi confissi, corpi sferzati, corpi scontrati, corpi depauperati – corpi in guisa di fardelli pesanti e inobliabili che restano quale singolare e anomalo attributo della stessa immaterialità delle anime. Un modo di mettere a nudo i corpi, di esporli alle loro debolezze, è giusto la malattia, che l’esercizio della medicina può diagnosticare e precisamente indicare nella sua sconvolgente evidenza, usando a supporto i referti della anatomia patologica: l’osservazione clinica e quella ottenibile da una resezione chirurgica e quindi la diagnostica sono i metodi alla bisogna impiegati.

Infine la malattia, giusta la cultura medievale con le sue accentuate connotazioni religiose, può essere persuasivamente associata (senza che ciò implichi di necessità un rapporto di causa ed effetto) ad un castigo di Dio, prestandosi al contrappasso; e può accentuare la sensazione fisica e psicologica del buio (fra sinistri rossi guizzi di luce, in chiaroscuri spinti fino al fortissimo), il buio di una spaventevole, gridata condizione disumana; e, valendo da memento per il lettore, si rende volano di quel realismo espressionistico che è tanto della straordinaria bellezza e della inarrivabile intensità dell’Inferno. Quanto all’espressionismo, mi piace ricordare che, in letteratura come in arte e come ancora nel cinema, le condizioni parossistiche, gli eretismi psicologici, gli stati di malattia vi depositano non poche tracce, tanto da diventare chiavi di lettura, anche storiche ed ideologiche, del movimento nella sua totalità e pure nelle tante ramificazioni che da esso partono.

Per tornare panoramicamente ai luoghi infernali, a conforto della ipotesi appena formulata, e per suggerire in generale la pertinenza dell’habitat – tra orografia e urbanistica e geografia antropica – ad una realtà di malattia diffusa a rischio di propagazioni pandemiche, conviene citare, che ha valenza complessivamente definitoria, il passo che rammenta la zona di Malebolge abitata dai falsari: «Quando noi fummo sor l’ultima chiostra / di Malebolge, sì che i suoi conversi / potean parere a la veduta nostra // lamenti saettaron me diversi, / che di pietà ferrati avean li strali; / ond’io  li orecchi con le man copersi. // Qual dolor fora, se de li spedali / di Valdichiana tra ‘l luglio e ‘l settembre / e di Maremma e di Sardigna i mali // fossero in una fossa tutti ‘nsembre, / tal era quivi, e tal puzzo n’usciva / qual suol venir da le marcite membra» (Inf., XXIX, vv. 40-51). Come colui che ha percezione esatta della condizione disastrosa di taluni presidi ospedalieri di degenza e di cura del suo tempo, e sa delle patologie prevalenti nei pazienti che vi sono ricoverati, e insomma con la consapevolezza dell’infettivologo e dello specialista di igiene e di medicina pubblica, Dante impianta l’ennesima efficace similitudine: Malebolge, la quintessenza dell’inferno dantesco, il suo cuore, è accostata in una comparazione di maggioranza a un cronicario degli inguaribili, un lazzaretto o luogo concentrazionario all’aperto, per di più nelle zone malariche durante la stagione estiva, quella della recrudescenza e delle acuzie, dove il dolore e la rovina dei corpi crescono a dismisura e si manifestano nel disordine e nei guasti dei sensi che muovono ad espressione, dei sensi che sollecitano comunicandosi alla collettività: ecco i lamenti che rompono i timpani, ecco il puzzo di marcio che s’effonde mentre la vista inquadra i “conversi” (feroce ironia del poeta) che hanno dannazione in quella infernale “chiostra” (altra feroce ironia). La prima cantica, quanto alla sua scenografia in campo totale, è una sola “fossa” ove tutti i mali si raccolgono, l’analogo di un concentrato di ospedali di ricovero e di  cura, ma senza protocolli terapeutici idonei e con posti-letto insufficienti, che non arginano più le malattie, le quali dilagano finché tutto è una malattia, un corpo malato che estenua i sensi: l’abilità finissima del poeta consiste nel figurare la realtà ultraterrena attraverso la lente della terrestrità ovvero della storia materiale che apparteneva al lettore, anche a quello che non disponeva di strumenti sofisticati di comprensione e di conoscenza, perciò estraneo alla classe dei colti. Di cronicari e di malattie aggressive, debilitanti e deturpanti, da fare paura, infatti, non c’era lettore comune che non avesse avuto esperienza o che non avesse saputo dalle esperienze altrui.

È di tutta evidenza che, trattandosi di inferno con le sue pene eterne, nessuna guarigione è possibile dalle malattie inventariate e nessuna terapia è prevista. E altrettanto chiaro è che sono malattie croniche, ineluttabilmente gravi e invalidanti, che non possono avere prognosi di morte – un esito di liberazione al dunque – e che neppure conoscono fasi silenti o di attenuazione dei sintomi. E poi le loro manifestazioni devono essere tutt’affatto visibili (con strascichi disagevoli per l’udito e l’olfatto), in modo che Dante pellegrino dell’oltretomba abbia facoltà di rendersene conto d’immediato e il lettore ne rimanga a sua volta suggestionato. Le malattie nell’Inferno, che è il regno doloroso dei corpi sofferenti, è d’obbligo che erompano in segni di superficie, meglio se ributtanti, tali che colpiscano il senso della vista, gli occhi della mente. Dunque producono complicanze – questa la sintomatologia attestata preminentemente – di pesante deformazione delle sembianze o hanno un impatto mostruoso sulla pelle con aberranti conseguenze dermatologiche. La sequela dei corpi piegati e piagati è ininterrotta; il massimo dello stravolgimento della figura antropomorfa consiste nel corpo mutilo, nel corpo straziato, nel corpo eviscerato.

La dissezione da tavolo anatomico, l’osservazione clinica e la diagnosi ottenutane (una diagnosi che non ammette dubbi) distinguono dunque, lo ribadiamo, le pratiche mediche in esercizio nella prima cantica. Dove si conferma quanto la strategia della visibilità, tanto più se rafforzata sinesteticamente da segnali uditivi e olfattivi, risulti determinante nella costruzione poematica: visibilità (e/o teatralità) per la quale il contributo di nozioni e di immagini della scienza medica, così come essa si definisce all’epoca di Dante, è da ritenersi fondamentale.                                    

Ma è tempo di passare alla casistica, in una offerta che consideriamo, per quanto incompleta, comunque largamente rappresentativa.

Cominciamo dalla rogna, data per metafora, in un contesto da proverbio e da sentenza popolare, del guasto morale diffuso nella società. La sua testimonianza d’accusa è tanto più forte, dacché la pronuncia una tantum avviene nel Paradiso, dacché le dà voce autorevole Cacciaguida (chiamato a dialogo per tre canti consecutivi, così forte è il carisma e fulgido l’esempio del trisavolo di Dante), dacché come forma nominale di linguaggio basso schiude una acuta dissonanza con lo stile alto della terza cantica, dacché le si aggrega un impegno etico di denuncia anche ruvida e di avversione al potere, impegno che si propone come segno caratteristico della Commedia: «La luce in che rideva il mio tesoro / ch’io trovai lì, si fé prima corusca, / quale a raggio di sole specchio d’oro; // indi rispuose: “Coscienza fusca o de la propria o de l’altrui vergogna / pur sentirà la tua parola brusca. // Ma nondimen, rimossa ogni menzogna, / tutta tua visïon fa manifesta; / e lascia pur grattar dov’è la rogna. // Ché se la voce tua sarà molesta / nel primo gusto, vital nodrimento / lascerà poi, quando sarà digesta. // Questo tuo grido farà come vento, / che le più alte cime più percuote; / e ciò non fa d’onor poco argomento» (Par.,  XVII, 121-35).

Anche la tigna trova spazio in una espressione vulgata d’uso plebeo, che riferisce genericamente dell’infezione micotica secondo gli usi del parlato. Siamo nell’Inferno (e dai suoi canti trarremo d’ora in avanti tutte le occorrenze), dove i diavoli si muovono come un esercito, che il dannato, Ciampolo, teme possa artigliarlo, e rovinosamente graffiarlo, sicché mette fine precipitosamente al suo racconto: «Omè, vedete l’altro che digrigna; / i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello / non s’apparecchi a grattarmi la tigna» (Inf., XXII, 91-3).

Una descrizione tra le più repellenti segue alla presentazione, che sopra abbiamo richiamato, della fossa che assembra tutte le patologie dei lazzaretti di terre di malaria. Dopo che si è data l’immagine di corpi riversi a nugoli, ammassati, impossibilitati a riprendere una posizione eretta («Qual sovra ‘l ventre e qual sovra le spalle / l’un de l’altro giacea, e qual carpone / si trasmutava per lo triste calle. // Passo passo andavam senza sermone, / guardando e ascoltando li ammalati, / che non potean levar loro persone», vv. 67-72) e prima che la causa agente sia rinvenuta nella lebbra («Onde l’altro lebbroso, che m’intese», v. 124), il parossistico tentativo di liberarsi dalle croste delle piaghe cicatrizzate induce uno sfregarsi, che è uno strigliarsi, l’uno all’altro accosto, la pelle butterata da una dermatosi secondaria da scabbia che scatena incontenibili pruriti. Puniti così, per contrappasso, sono i falsari: «Io vidi due sedere a sé poggiati, / com’a scaldar si poggia tegghia a tegghia / dal capo al piè di schianze macolati; // e non vidi già mai menare stregghia / a ragazzo aspettato dal segnorso, / né a colui che mal volontieri vegghia, // come ciascun menava spesso il morso / de l’unghie sopra sé per la gran rabbia / del pizzicor, che non ha più soccorso; // e si traevan giù l’unghie la scabbia, / come coltel di scardova le scaglie / o d’altro pesce che più larghe l’abbia» (Inf., XXIX, vv. 73-84). Per densità sonoramente aspre, per temi e per serialità di gesti laceranti di effrazione, è questa una delle pagine più violentemente espressionistiche del poema.

Al fine di dare avviso del rettilario carico di insidie, catalogato da Dante nel XXIV canto sulla falsariga di quel bestiario da meraviglioso esotico che aveva dato fama a Lucano in età medievale, è scelta la metonimia della pestilenza, ma la lebbra, che totalizza più occorrenze, torna alla ribalta come figurante metaforica accrescitiva di una patologia morale, della febbre di dominio alimentata dalla superbia, in una similitudine composta da Guido di Montefeltro nel XXVII, che rilancia la leggenda costantiniana con il miracolo ottenuto dal battesimo dell’imperatore: «Ma come Costantin chiese Silvestro / d’entro Siratti a guerir de la lebbre, / così mi chiese questi per maestro // a guerir de la sua superba febbre» (vv. 94-9).

La febbre è “lettera” evocata nel secondo termine di paragone –  non è metafora – nel canto di Gerione; e occorre a misurare la paura del pellegrino dell’aldilà, che s’accinge a cavalcare il mostro volante, pur riparato dai suoi velenosi colpi di coda grazie all’interposizione di Virgilio. E sembra di nuovo potersi dire che, pieno il lago del cor, Dante sbianca, squassato dai brividi: «Qual è colui che sì presso ha ‘l riprezzo / de la quartana, c’ha già l’unghie smorte, / e triema tutto pur guardando ‘l rezzo, // tal divenn’io a le parole porte» (Inf., XVII, vv. 84-8).

La, quartana, varietà clinica della malaria, è febbre periodica; ha punte di temperatura ancora più alte la mala febbre, repertata nelle distinzioni degli stati febbrili che si debbono a Galeno e che si trovano riportate dagli enciclopedisti medievali. Allora il guasto degli organi, per effetto di eccesso di calore, è accompagnato da un lezzo forte e sgradevole, come quello della moglie di Putifarre e di Sinone subornatore dei Troiani nella circostanza del cavallo del tradimento, portato dentro le mura: «L’una è la falsa ch’accusò Giuseppo; / l’altr’è ‘l falso Sinon greco di Troia; / per febbre aguta gittan tanto leppo» (Inf., XXX, vv. 97-9).

La banda dei falsari è aggredita da altre patologie: dapprima dalla idrofobia che fa rabbiosi i dannati («E l’Aretin che rimase tremando, mi disse: “Quel folletto è Gianni Schicchi, / e va rabbioso altrui così conciando», ivi, vv. 31-3; poco prima di Ecuba, sulla scorta del racconto tra Omero e Virgilio, si sono mostrati gli attacchi subitanei di follia) e poi dalla idropisia. Gli effetti della ritenzione dei liquidi, con il rigonfiamento del corpo, muovono una similitudine grottesca (e surreale) con la forma bombata del liuto e alimentano il comico-realistico che caratterizza l’ultima parte del canto, quando Sinone colpisce con un pugno la “epa croia” di mastro Adamo, come una mazza colpisce un tamburo, e quando si anima una tenzone sullo schema delle dispute filosofiche, ma comicamente stracarica di ingiurie e di invettive: «Io vidi un, fatto a guisa di lëuto, / pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia / tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto. // La grave idropesì, che sì dispaia / le membra con l’omor che mal converte, / che ‘l viso non risponde a la ventraia, // faceva lui tener le labbra aperte / come l’etico fa, che per la sete / l’un verso ‘l mento e l’altro in su rinverte» (ivi, vv. 49-57; e qui, come si è visto, Dante fa cenno, con Ippocrate, ad uno squilibrio degli umori quale causa dell’affezione morbosa e convoca infine sulla pagina un’altra malattia, la tisi, che toglie il fiato e fa ardere di sete).

Quello di mastro Adamo è un corpo disarmonico, sgraziato, sformato; non altrimenti appare la sagoma degli indovini che hanno preteso, millantando e illudendo la gente, di vedere lontano in avanti precorrendo i tempi e che, dopo la morte, per contrappasso, hanno il capo forzosamente volto all’indietro in una eterna, inamovibile, innaturale posa. È propizio, per fermarne l’immagine, il riferimento agli esiti di una paralisi: «Come ‘l viso mi scese in loro più basso, / mirabilmente apparve esser travolto / ciascun tra ‘l mento e ‘l principio del casso, // ché da le reni era tornato ‘l volto, / e in dietro venir li convenia, / perché veder dinanzi era lor tolto. // Forse per forza già di parlasia / si travolse così alcun del tutto; / ma io nol vidi, né credo che sia» (Inf., XX. vv. 10-8).

La rigidità, stavolta da congelamento dei liquidi organici, blocca l’organo della vista; il freddo provoca una perdita di omeostasi del film lacrimale: «che le lagrime prime fanno groppo / e sì come visiera di cristallo, / riempiono sotto ‘l ciglio tutto il coppo» (Inf.. XXXIII. Vv. 97-9). Nel canto successivo, l’ultimo della prima cantica, la ghiaccia di Cocito, solidificata dal vento gelido che è mosso dalle ali di Lucifero, fissa i dannati in figure eternamente immobili, disossate, piegate, capovolte, come sotto formalina: «Già era, e con paura il metto in metro, / là dove l’ombre tutte eran coperte, / e trasparien come festuca in vetro. // Altre sono a giacere; altre stanno erte, / quella col capo e quella con le piante; / altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte» (Inf., XXXIV, vv. 10-5). Li si direbbe aborti conservati in una sala-museo di anatomia; mentre da tavolo di dissezione anatomica esercitata su vivi sono i corpi smembrati, aperti, manomessi, con le viscere in mostra repellente di cui si dà di seguito esposizione senza bisogno di particolari note di commento, tanto testimoniano, lungo tutto il XXVIII, il canto dei seminatori di discordie, della dominanza nell’Inferno del corpo scempiato, violato.

Lo spettacolo, in una sovrabbondanza di sangue che copre e tinge molto del paesaggio e dei corpi infernali, è orroroso («Chi poria mai pur con parole sciolte / dicer del sangue e de le piaghe a pieno / ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?», vv.1-3); particolare dopo particolare, lo spettacolo si fa più atroce: «Già veggia, per mezzul perdere o lulla, / com’io vidi un, così non si pertugia, / rotto dal mento infin dove si trulla. // Tra le gambe pendevan le minugia; / la corata pareva e ‘l tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia» (vv. 22-27); «fesso nel volto dal mento al ciuffetto» (v. 32), «Un altro che forata aveva la gola / e tronco ‘l naso infin sotto le ciglia, / e non avea mai ch’una orecchia sola, // ristato a riguardar per maraviglia / con li altri, innanzi a li altri aprì la canna, / ch’era di fuor d’ogni parte vermiglia» (vv. 64-9), «Oh quanto mi pareva sbigottito / con la lingua tagliata ne la strozza / Curïo, ch’a dir fu così ardito! // E un che avea l’una e l’altra man mozza, / levando il moncherin per l’aura fosca, / sì che ‘l sangue facea la faccia sozza // gridò…» (vv. 100-6). E nello spreco di sangue è da pulp, da morgue ma per morti viventi, l’ultima granguignolesca figura del canto, quella del decollato, e dunque di un corpo scisso, di un corpo in due, con la testa tenuta per i capelli e portata a mo’ di una lanterna penzolante: «Io vidi certo, e ancor par ch’io ‘l veggia, / un busto senza capo andar sì come / andavan li altri de la trista greggia; // e ‘l capo tronco tenea per le chiome, / pesol con mano a guisa di lanterna: / e quel mirava noi e dicea: “Oh me!” // Di sé facea a sé stesso lucerna, / ed eran due in uno e uno in due, / com’esser può, quei sa che sì governa» (vv. 118-26).

E non cito, infine, gli strabilianti canti delle metamorfosi, nei quali a ritmo serrato e a ciclo continuo si operano tagli e ricuciture e tagli ancora, da chirurgia addominale e toracica ma non ricostruttiva, e tanto meno estetica, in funzione della disarticolazione dell’unità del corpo e della dissoluzione della sua armonia. Quella armonia che con Ippocrate e la sua fisica medica è, invece, lo spartito della salute, quella armonia di respiro metafisico, l’armonia delle sfere e del creato, che con Tommaso aristotelico è il luogo della salvezza.