Prof. Giovanni Ceccarelli

Libero Docente in Pediatria

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2018-2019

Vol. 63, n° 4, Ottobre - Dicembre 2019

Conferenza: A la recherche d’un temps perdu: piccole storie di Storia della Pediatria. Un ricordo di G. Roberto Burgio nel centenario della nascita

07 maggio 2019

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A la recherche d’un temps perdu: piccole storie di Storia della Pediatria. Un ricordo di G. Roberto Burgio nel centenario della nascita

G. Ceccarelli

NESSUNO NASCE PER PROPRIA VOLONTA’.

DI CONSEGUENZA SIAMO TUTTI IMPEGNATI

A FAR VIVERE BENE CHI NASCE.

G.R. BURGIO, 8 MARZO 2013

 

Il 30 aprile 2019 ricorreva il centenario della nascita del prof. Giuseppe Roberto Burgio, uno dei più eminenti pediatri italiani della seconda metà del secolo scorso. La Società Italiana di Pediatria (SIP) dedicò il 70esimo congresso tenutosi nella sua Palermo tra l’11 e il 14 giugno 2014 al Professore, scomparso pochi mesi prima; nel Congresso successivo, tenutosi a Roma, una sessione venne dedicata al ricordo della sua opera. Questa mio intervento sembrerebbe quindi pleonastico se non ridondante e molto personalistico e presuntuoso. Ma io ringrazio in modo particolare la Presidente Gasbarrone e il Comitato scientifico della nostra Accademia per avermene consentito la presentazione per almeno due motivi. Il primo è che negli ultimi anni la Pediatria non è stata molto presente nel calendario delle sedute; il secondo dovrebbe apparire chiaro al termine di questa mia presentazione. Un cenno per spiegare il motivo del titolo molto proustiano di quest’oggi. Ci sono momenti e circostanze nella vita in cui dobbiamo prendere delle decisioni importanti: il professore ne fa cenno in un racconto autobiografico pubblicato in età avanzata (come quando declinò l’invito rivoltogli dal preside della facoltà medica della Sapienza a trasferirsi a Roma);  e per me un momento di questo tipo fu quando decisi –come il professore per un “ragionar sentendo  la voce del cuore”- di stare accanto ad una persona per me molto importante nel corso della malattia che l’avrebbe portata dopo anni alla morte. Il tempo passato, allora, col professore, non si mutò per me in un tempo “perdu”, perso o perduto, ma divenne, come quello di Marcel, un tempo continuamente presente e sempre, senza rimpianto, con nostalgia rinnovato e vissuto.

Due famosi dipinti (“La bambina con la colomba” di Pablo Picasso e il particolare della “Morte della mamma” di Edvard Munch con la piccola che si tura le orecchie per non “sentire”, letteralmente non sentire, il dolore per l’evento appena consumatosi) sono la raffigurazione visiva dei due grandi sentimenti, non sempre purtroppo appieno compresi e intuiti dagli adulti i quali al contrario dovrebbero sempre averli presenti, che albergano nel cuore dei bambini: l’amore e il dolore. Il pediatra deve tenerne conto.

*

Ci sono tre frasi, quasi tre assiomi, che raccontano la condizione del bambino nelle diverse epoche: la prima (“Maxima debetur puero reverentia”) è del poeta satirico latino Giovenale. La frase va intesa, come appunto l’autore, in senso satirico, dal momento che nell’antica Roma il bambino era considerato solo “un essere in divenire”, che sarebbe diventato pienamente un “essere” solo con la maggiore età. La seconda frase (“Il bambino non è un adulto in miniatura”) si deve a Abraham Jacobi, un medico tedesco emigrato per motivi socio politici, alla metà del XIX secolo, prima in Inghilterra e poi negli USA, dove istituì i primi reparti pediatrici, tanto importanti da far dire a William Osler- il Sydenham americano di quel secolo, che “nessuno ha fatto per la nostra Nazione quanto Jacobi”. La terza frase (“In puero homo”) si trova sull’architrave della antica, quasi ormai vecchia Clinica Pediatrica universitaria di Roma ed è attribuita con qualche incertezza a Leonardo da Vinci e quindi viene bene nell’anno vinciano. Questi assiomi vanno però considerati anche in relazione a quanto si legge in un trattato di Baltasar Gracian, molto diffuso ai suoi tempi, alla metà del XVII secolo, che recita: “Solo il tempo può guarire dall’infanzia e dalla giovinezza, che davvero sono in tutto età imperfette”. Questa concezione dava infatti vita a due gruppi di bambini: da un lato il gruppo molto numeroso e quasi totalitario degli scugnizzi, dei lazzaroni, dei bricconcelli, dei ladruncoli, dei derelitti, così ben descritti nei dipinti di Esteban Murillo; e dall’altro il gruppo, molto meno numeroso, dei bambini “aristocratici” vestiti, ma solo vestiti, alla moda degli adulti (ricordate Jacobi) esemplificati dalla “Infanta Margherita” idi Velasquez, entrambi dello stesso tempo del trattato di Gracian. Esistono ovviamente molte “Storie della pediatria”, ricordo solo quella in italiano di Nicola Latronico, vecchia ormai di oltre 50 anni ma sempre ricca di notizie e informazioni; e altre in inglese e ricordo anche che nel 1998 la SIP ha istituito, soprattutto per impulso di Giorgio Maggioni, pediatra di origini triestine ma ben noto a Roma, un Gruppo di studio per la storia della pediatria in Italia (GSSP). Ma la storia dei bambini nelle diverse epoche è oggetto di indagine più ad opera di storici (ottimi il libro della Becchi e, anche se un po’ discusso, anche quello di Ariès) che di medici; appare evidente che fino all’illuminismo, per citare una frase del professore, “il bambino era nulla e poi a poco a poco passò prima alla sfera economica e poi a quella del sentimento”. Ė interessante che Pietro Verri, l’illuminista milanese morto nel 1797, scrisse molte lettere alla figliola descrivendo la sua “attenzione meravigliata” per lo sviluppo del suo corpo e per la sua salute. Con la rivoluzione industriale postnapoleonica, il bambino assume se non altro in prospettiva una dimensione economica, e ha “il privilegio” di avere una famiglia, che si occupa di lui anche solo in vista dei possibili guadagni che ne potrà ricavare (gli opifici inglesi senza quasi finestre in cui vengono racchiusi i piccoli, descritti da Dickens e da altri). Compaiono allora testi dedicati specificamente alle malattie dei bambini, elementi che prima erano presenti quasi in forma aneddotica: quello di Harris in inglese è uno dei primi, seguito da quello di Rosenstein (uno svedese) in tedesco; per il primo testo sistematico in francese bisogna attendere il 1845 con Bouchut. In Italia trattati dedicati alle malattie del bambino appaiono subito prima della I guerra mondiale e sono quelli di Concetti, di Cozzolino e di Valagussa. In genere, negli Stati italiani preunitari si era bambini fino a 7 anni, con l’eccezione dei 9 anni nel Granducato di Toscana e prima dei due anni non si era ammessi negli ospedali (una recente indagine inglese su Manchester ha tuttavia evidenziato la presenza di un 15% di bambini –per lo più maschietti- negli ospedali della città inglese); c’erano naturalmente i brefotrofi, dei quali un esempio è quello dell’Ospedale degli Innocenti a Firenze, nel quale ancora oggi un affresco di Bernardino Poccetti del 1610 mostra la vita dei piccoli ricoverati, tra fasce e visite dei benefattori. Il primo ospedale pediatrico lo si ritrova a Parigi, nel 1802. L’Hopital des enfants malades, che sorge su un precedente edificio (“L’hopital de l’Enfant Jesus”) voluto da Necker e quindi sotto Luigi XVI; nei primi decenni del XIX secolo sorgono ospedali per i piccoli a San Pietroburgo, Budapest, Berlino e Vienna; per il primo ospedale del genere a Londra (il Great Ormond Street Hospital, che “great” era solo per la via in cui sorgeva, e non certo per il modesto numero di lettini che ospitava) bisogna attendere il 1852, e in esso si avrà la conquista di “one child one bed”). In Italia per ammissione quasi unanime il primo ospedale pediatrico è quello che sorge a Roma per iniziativa della duchessa Arabella Salviati nell’ultimo anno dello Stato pontificio (1869), l’Ospedale del Bambin Gesù, che aveva la sua prima sede in via delle Zoccolette e si sposterà poi nei locali dell’ex convento di S. Onofrio sul Gianicolo: alcune stampe ne mostrano diversi aspetti, con i “girelli” e i letti dalle alte sponde. In realtà in Italia c’erano già altre strutture che accoglievano i piccoli, come l’ospedaletto di santa Filomena a Torino, che ricoverava solo bambine sotto i 12 anni non affette da malattie infettive e nel quale operò S. Giovanni Bosco; e, per azione di alcuni mercanti di Livorno e sotto gli auspici del Granduca di Toscana, erano apparse le prime “colonie estive” per i bambini. Nel primo anno del Regno d’Italia si ebbero 140.000 bambini abbandonati – in massima parte accolti nei brefotrofi- su circa 22 milioni di abitanti; la mortalità infantile –non solo in Italia- era elevatissima (circa il 220 per mille nati vivi nel 1862) ed essa si è poi ridotta notevolissimamente (oggi è di circa il 3 per mille in tutte le nazioni europee; ma ancora nel 2011 era del 149 per mille in Angola). Solo a partire dagli ultimi anni del XX secolo il numero annuale di nascite in Italia è divenuto inferiore a quello dei morti e tale fenomeno continua. La SIP nasce nel 1898, solo 10 anni dopo l’American Pediatric Society, ad opera di 109 membri fondatori, che quindi a quel punto si dedicavano quasi esclusivamente alla cura dei bambini.

*

Dopo questi primi ricordi storici, vorrei arrivare a una sorta di “carotaggio” di almeno una situazione inizialmente quasi solo pediatrica, la sindrome di Down, ma prima vorrei citare una frase di s. Agostino, nei suoi “Commenti ai salmi”:

 

“La bellezza della natura

è come una voce nascosta che sorge da essa.

La si osserva ed essa ci appare

in tutta la sua bellezza, la sua fertilità e le sue origini.

Osserviamo come il seme [potremmo dire “il bambino”] comincia a germogliare

e a divenire qualcosa di completamente diverso da quel che era [ricordate Jacobi?].

Nel prender coscienza di tutto questo,

é come se ci si domandasse nella nostra mente perché é così.

Pieni di stupore, si comincia a cercare,

ad andare a fondo, a trovare le radici e alla fine

si scopre una nuova grande bellezza e una sconvolgente forza”.

 

Come si vede, già agli inizi del V secolo alcuni spiriti eletti intravedono la bellezza della ricerca e quindi di quella che diverrà poi anche la ricerca medica. La scelta qui della sindrome di Down deriva dal fatto che tale condizione è stata per moltissimi anni al centro delle ricerche del Professore che la considerò come modello di una entità biologica e biofunzionale e non soltanto morfologica e intellettiva, dedicandosi particolarmente alla valutazione in essa della situazione immunitaria alla quale si potevano riportare, ad esempio, i rischi di neoplasie di origine specie linfoide, quelli di situazioni di senescenza precoce e di Alzheimer particolarmente frequenti in questi piccoli soggetti. La situazione delle conoscenze sulla sindrome di Down al tempo di miei primi passi –agli inizi degli anni ’50 del XX secolo- era alquanto vaga. Nel testo di Gino Frontali, sul quale al tempo si studiava e di cui era disponibile l’edizione del 1954, essa era indicata come “una malattia misteriosa” e la si descriveva nel capitolo delle endocrinopatie. Va notato che il cortisone era entrato da pochissimi anni, non più di 5 o 6, nell’armamentario terapeutico e che l’endocrinologia era la branca medica del momento, onde in essa si inquadravano spesso le situazioni non chiare. In realtà la sindrome di Down era nota da circa un secolo, da quando cioè un medico francese (Edouard Seguin) aveva identificato quello che aveva indicato come un “cretino furfuraceo”; dopo circa 20 anni un medico inglese, Langdon Down, aveva operato la prima descrizione fisica di quella condizione che era divenuta “il Down” dal suo nome; egli in realtà aveva operato una “classificazione etnica degli idioti” presenti nel suo asylum di Earlswood e ne aveva indicato alcuni come “mongoloidi”, per alcune loro caratteristiche somatiche e il termine “mongoloide” aveva affiancato quello di “Down”. Il ritrovamento di alcuni resti ossei nella Francia settentrionale ha permesso poi di evidenziare come il Down fosse presente già nel VI-VII secolo d.C.; e inoltre stigmate “mongoloidi” si notano in alcuni reperti archeologici risalenti a molto prima. Già nel 1934 un pediatra americano, Adrien Bleyer, aveva intuito che nel Down ci potesse essere “una alterazione del numero dei cromosomi, come si osserva in alcune condizioni vegetali; una vera alterazione dei gameti che si ripeterebbe in ogni cellula derivata da quella iniziale…”; nel 1939 un altro genetista, Lionel Penrose, scriveva che “il mongolismo ha la sua base in anomalie cromosomiche”. Sempre nel 1939 il grande pediatra di origine italiana, Guido Fanconi che lavorava a Zurigo, credette di intuire che “…ogni cellula del bambino mongoloide” potesse avere “un cromosoma in meno per una perdita durante la scissione riduttiva della cellula germinale”. Un cromosoma in meno, un cromosoma in più, ma rispetto a cosa? In realtà in quegli anni si affermava, e così ci era stato trasmesso nel corso di “Biologia generale e delle razze” (questo era il titolo ancora nel 1951), che il “normale” numero di cromosomi nell’uomo fosse pari a 48, distinti in 24 coppie, una cognizione che risaliva ormai a circa 30-40 anni prima per gli studi di Morgan e di altri. Solo nel 1956 apparve la famosa comunicazione di Joe Hin Tijo (un cinese nato a Giava laureato in agraria, che lavorava a Saragozza ed era stato spostato in Svezia nel laboratorio di Albert Levan) che stabiliva definitivamente (e con una notevole sorpresa degli stessi autori) che il numero normale di cromosomi nell’uomo era pari a 46, distinti in 23 coppie. Tra l’altro, Tijo non volle mai piegarsi alla consuetudine allora vigente in Europa, secondo cui il primo nome che appariva in una pubblicazione doveva essere quello del Capo del laboratorio, che nel loro caso era Levan; e ciò rovinò definitivamente il rapporto tra i due. Tre anni dopo, nel 1959, apparve un altro famoso lavoro ad opera di tre ricercatori francesi: Jerome Lejeune, Robert Turpin e Marthe Gauthier- che riportava la sindrome di Down a una trisomia del cromosoma 21 (quindi, un cromosoma in più). Pochi anni dopo, un gruppo di genetisti e pediatri tra cui lo stesso Lejeune in una lettera al Lancet invitò gli studiosi e tutti a non indicare più la sindrome col termine “mongolismo”, che appariva connotato razzialmente, e ad usare la dizione “Trisomia 21”. Ma “il Down” restò per molti sempre “il Down”.  50 anni dopo la scoperta, nel 2009, la Gauthier, che era rimasta l’unica vivente dei tre, sollevò (in una sorta di caso Weinstein ante litteram) il problema secondo cui, al tempo della scoperta, lei, in quanto donna, era stata costretta dagli altri due a posporre ai loro il suo nome, laddove la scoperta stessa era in realtà dovuta principalmente a lei. La diatriba si inasprì, anche perché vi intervennero da un lato l’INSERM (Institut national de la santé et de la recherche médicale) che prese le parti della Gauthier e dall’altro la Fondation Lejeune che aspramente difese il ruolo del suo mentore. Piccole storie di cui purtroppo la storia della scienza è piena. In seguito numerose altre anomalie cromosomiche sono venute alla luce e tra esse citerò solo la sindrome di Turner a corredo cromosomico 45X0, e solo perché essa era stata già descritta dal punto di vista fenotipico addirittura da Malpighi nel 1768 e poi da altri: Ullrich nel 1930 si era soffermato sulla plica del collo, Turner nel 1938 sulla ipoplasia dei genitali, Albright nel 1942 sulle modificazioni ormonali e infine Ford che nel 1959, lo stesso anno di Lejeune, ne aveva individuato il cariotipo: il che è interessante perché indica come nelle diverse epoche l’interesse dei vari studiosi si concentra su quello che, al momento, è il tema più “di moda”. Sempre nel 1956 per la prima volta si attuarono indagini cromosomiche su cellule del liquido amniotico, inizialmente allo scopo di cercare di determinare, prima della nascita, il sesso del nascituro; l’individuazione del corpuscolo cromatinico di Plunkett e Barr, presente nelle femmine, fu il primo passo in tale direzione che avrebbe avuto, ma solo dieci anni dopo, una sviluppo notevole con l’applicazione delle tecniche ecografiche al feto; queste stesse tecniche sono oggi alla base della individuazione precoce dei feti a rischio Down. Non è più storia ma cronaca la mappatura del cromosoma 21, che tra l’altro mostrò, con una certa sorpresa, come questo cromosoma contenga un numero molto modesto di geni (appena 225), anche in confronto con altri della stessa grandezza e conformazione, come il 22. Oggi l’età mediana raggiunta da colpiti da trisomia 21 raggiunge e supera i 50 anni, rafforzando quindi a posteriori la convinzione di Lejeune che si è sempre opposto con forza ad un loro aborto. Una recente rassegna con oltre 200 voci bibliografiche è dedicata a: “What people with Down syndrome can teach us about cardiopulmonary disease”. Ciononostante dal 30 al 50% dei feti Down viene abortito in Italia e in altri Paesi (dalla Danimarca all’Islanda) quasi non nascono più neonati Down.

Solo pochissimi cenni su un’altra condizione un tempo quasi esclusivamente pediatrica e nella quale i considerevoli progressi ottenuti hanno permesso di arrivare ad una vita media di circa 30 anni, con punte anche maggiori: quella che era indicata nei vecchi trattati come “fibrosi cistica del pancreas con bronchiectasie” e che oggi si indica di solito con il termine “mucoviscidosi”. Accennerò solo ad un punto, il famoso “test del sudore” che ne permette la diagnosi in quanto come osservò per primo un pediatra italiano emigrato negli USA nel 1939 (Paul di sant’Agnese) il contenuto in sodio e cloro del sudore dei piccoli malati è molto maggiore del normale. In realtà, se il test del sudore in forma scientifica risale al 1953 e le prime osservazioni furono compiute durante la grande “epidemia di calore” che si verificò a New York nell’estate 1948 (i bambini affetti da fibrosi cistica andavano incontro molto più degli altri a veri e propri colpi di calore e a disidratazione), la voce popolare aveva già fatto la stessa osservazione da tempo: in una raccolta di canzoncine per bambini apparsa in Svizzera alla metà del XIX secolo si notava che “il bambino che baciato sulla fronte sa di sale, muore presto”. Nei primi tempi, per raccoglierne il sudore i bambini erano avvolti in vere e proprie scatole di plastica, tanto che, come venne poi riportato, alcuni ne morivano. Solo una notazione: questi piccoli morti sono dei veri caduti sulla via del progresso, anche se gli storici –anche quelli della medicina- spesso se ne dimenticano. L’osservazione di Di Sant’Agnese pone poi l’accento su un altro punto: in una affezione che clinicamente sembrava interessare in primo luogo il pancreas e la sua produzione esocrina e successivamente solo i polmoni, per le infezioni a loro carico, il test del sudore ha messo in evidenza che anche strutture apparentemente lontane da quelle clinicamente più coinvolte, sono interessate dalla malattia;  dal che la necessità – su cui insisteva molto Burgio- che sempre lo studio del bambino malato riguardi tutto il suo organismo, evitando eccessive settorizzazioni specialistiche che a volte impediscono un corretto orientamento. Anche in questo caso, la storia trapassa nella cronaca o quasi, quando si dimostrò che il difetto di base della malattia consiste in una alterazione a tutti i livelli del riassorbimento epiteliale degli ioni sodio e cloro, per un danno, geneticamente determinato, di un fattore (CFTR) che regola, di norma, proprio il passaggio di questi ioni attraverso le cellule degli epiteli.

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Questo ormai lungo discorso non può prescindere, per concludersi, da un cenno ai molteplici interessi del Professore –che negli ultimi anni sono trapassati anche alla morale e in un certo senso alla filosofia. Egli sviluppò il concetto di “Io biologico”, una intuizione che partendo dalla “individualità biochimica” di sir Archibald Garrod degli anni ’30 e dall’idea di “self” di Burnet negli anni ’40-‘50, ha dato nuove basi immunogenetiche all’antico concetto di “diatesi”, la predisposizione ad alcune malattie. Un altro campo di indagine a lungo coltivato, sulla base dell’interesse iniziale sulle anomalie cromosomiche del sesso, fu quello dello sviluppo immunologico fetale e neonatale, con l’adattamento del bambino al nuovo ambiente con cui viene a contatto dopo la nascita rispetto alla sua condizione iniziale di “impianto” nel corpo della madre. Inoltre, lo sviluppo di nuove tecniche portò il Professore a proporre che accanto all’antico detto, che si desume da Ippocrate e che ha caratterizzato per secoli la medicina: “Primum non nocere”, si debba considerare il nuovo aspetto del “Primum adiuvare”. Questo sviluppo venne derivato da un caso divenuto molto noto, pubblicato e discusso a più riprese nel corso di oltre due decenni dal Professore: quello di una bambina venuta alla sua osservazione perché affetta da una gravissima forma di leucemia mieloide ai primi tempi (anni ’80) delle possibilità di cura mediante trapianto di midollo osseo compatibile. Il Professore illustrò ai genitori della piccola, due persone molto semplici, la prospettiva che la nascita di un fratellino della bambina (concepito naturalmente, al di fuori di ogni artificio dell’arte fertilizzante ostetrica) avrebbe forse (con una non notevole probabilità) potuto dare la disponibilità di un trapianto di midollo osseo che a sua volta forse avrebbe offerto qualche possibilità di salvezza alla piccola. I genitori avevano aderito e il fratellino, rivelatosi fortunatamente compatibile, aveva offerto una piccola parte del suo midollo osseo alla sorellina. Per oltre 20 anni i due piccoli (cui convenzionalmente si dettero i nomi di Evelina e Marco) vennero seguiti dal punto di vista medico dal Professore e dalla sua scuola e vivono ancora normalmente. Il “caso” venne a lungo discusso in diverse sedi dal punto di vista scientifico (il Professore ne fece oggetto di dibattito in due convegni tenutisi con la partecipazione importanti di clinici e bioeticisti pediatrici), ma, soprattutto in Italia, fioccarono critiche anche ad opera di personaggi molto noti (la Levi Montalcini e Gianni Baget Bozzo, ad esempio). Fu, quel caso, l’origine del “Primum adiuvare” portato avanti dal Professore che sempre, anche dalle circostanze apparentemente meno favorevoli-sapeva trarre e traeva nuovi spunti di conoscenza (vedi riquadro 1)

 

 

Concludo ricordando che nel 2001, quando il professore aveva ormai 82 anni, gli immunogenetisti e i pediatri statunitensi gli dedicarono un “Encomium” e lo indicarono come “an internationally renowned clinician investigator, educator, author, mentor, collegue and friend”; in una parola “a man for all seasons”, secondo la frase coniata nel 1520 per Thomas More. La infinita stima che ho avuto per lui mi è stata ricambiata dalla sua amicizia mai venuta meno dal nostro primo incontro a Palermo nel 1959, dagli anni della mia specializzazione e della mia docenza con lui, fino a quando nel 2012, egli volle scrivere la prefazione ad un mio piccolo libro che narrava la vicenda di amore e morte di un pittore svizzero, Ferdinand Hodler; una vicenda, a pensarci un poco, abbastanza simile a quella che mi aveva portato, tanti anni prima, a cambiare – per un “ragionar sentendo”-  la mia vita, ma senza rimpianti pur se con una proustiana inevitabile nostalgia.  Roberto Burgio, ed è questo il secondo motivo di questa mia rievocazione, è stato (dopo ovviamente i miei genitori, e non solo per motivi cromosomici, e dopo mia moglie) la persona che ha inciso più profondamente nel mio modo non solo di concepire la medicina dei piccoli, ma anche la stessa vita.


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L’autore è a disposizione per eventuali riferimenti più precisi attinenti al testo