Prof. Fabio Liguori

Ginecologo, Accademico Lancisiano

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2017-2018

Vol. 62, n° 3, Luglio - Settembre 2018

Settimana per la Cultura

17 aprile 2018

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Maternità e lavoro (e il futuro senza figli)

F. Liguori

Anche se fisiologica la maternità può comportare, per la donna, contraddittori conflitti psicologici come il narcisismo, desiderio di essere amata, ed il masochismo, inclinazione a donare, al sacrificio. Variegati dualismi in cui s’intrecciano, gli interessi dell’io con la raggiunta unità col figlio e l’immediato esclusivo possesso, prima; ed il servizio a favore della specie, con l’aspirazione del figlio all’indipendenza e l’inevitabile futuro doloroso distacco, dopo.

Il modo più naturale di risolvere questi contrasti è sempre stato quello di avere più figli, perché ognuno è diverso dall’altro, ed altrettanto dissimili sono i metodi inconsciamente adottati dalla madre per creare l’unità con ciascuno di essi. Queste teorie sono osteggiate da sistemi dottrinali storici, e socio-economici, tesi ad affermare che nell’odierna società non esista uno spirito materno puro, così come una femminilità ed una virilità assoluta.

Costretta tra queste antitesi generazionali, ideologiche e culturali, la donna è portata ad adeguarsi a nuovi modelli di vita associativa ispirati alla filosofia liberale che pone i diritti dell’individuo al di sopra delle convenzioni sociali: come il diritto a liberarsi dai vincoli del matrimonio cosiddetto “borghese” in favore di libere unioni precarie e provvisorie, senza obblighi legali e vincoli solidali.

Ciò nonostante, la maternità costituisce tuttora il nucleo centrale della contraddizione attorno al quale ruota il destino di ogni donna, anche quella che sperimenti un percorso di emancipazione. Non è un caso infatti che, conseguenza di un rapporto problematico con un’eventuale maternità, donne che hanno raggiunto importanti successi internazionali, sociali e culturali abbiano dovuto ricusare, nella vita privata, tradizionali ruoli femminili: chi rinunciando a sposarsi, chi dall’avere figli.

Emblematico il caso, in particolari situazioni, della madre che, ogni volta raggiunge un successo nell’attività professionale, o conquista una posizione che appaga la sua ambizione, più che sentirsi soddisfatta è portata ad avvertire “sensi di colpa” verso i figli (Erika Jong, scrittrice e saggista statunitense, classe 1942).

Molte donne sono esempio perfetto di soluzione del conflitto famiglia/lavoro, come la giovane regista romana Susanna Nicchiarelli, madre di una bimba ed in attesa di un secondo figlio, vincitrice del premio Orizzonti al festival di Venezia 2017 per il film “Nico 1988”, per il quale ha anche ottenuto il David di Donatello 2018 come sceneggiatrice. Altre donne, come mogli, utilizzano le possibilità offerte dalla vita sociale per aprirsi spazi all’arte, alla politica, alla letteratura, ed anche al volontariato: attività tutte con sbocchi indiretti al loro spirito materno.

Indubbiamente la maternità può essere oggi un peso per le classi più umili, come rappresentare un fattore di scomodità per le classi più agiate. Ma altre madri hanno volontariamente rinunciato a loro carriere per una vocazione sublimata nel ruolo di “madre-infermiera”, e persino nell’eroica libera scelta di dare la loro vita per quella di un figlio, sacrificando la propria: quando in una gravidanza, portata ugualmente a termine, era stato ad esse diagnosticato un tumore. Come è avvenuto per la pediatra S. Gianna Beretta Molla (1922-’62), già madre di tre figli ed in attesa del quarto, poi canonizzata da Giovanni Paolo II nel 2004.

Di fatto, nella moderna società la sempre maggiore intellettualizzazione verso interessi sociali e professionali, l‘attività sportiva (oggi ci sono perfino donne-pugili), il principio del figlio unico così diffuso nelle classi medie, le unioni libere per una scelta di tipo intimistica, sono tutte forme tangibili dell’allontanamento della donna dalla maternità.

Ma solo la donna può mettere al mondo un bambino, e senza figli non c’è futuro.

Nel giugno 2017 l’ISTAT ha rilevato che il 48,8 % delle donne italiane lavorava: un record rispetto al 1977, anche se ancora inferiore alla percentuale dei maschi (66,8 % nel 2017). In un solo settore le donne possono vantare un punteggio rugbystico (36 a 14) nei confronti degli uomini: per le ore settimanali dedicate al lavoro domestico!

Il record relativo raggiunto dalle italiane non può inorgoglire, se si considera che nell’Unione Europea siamo davanti solo alla Grecia (44.1%) e, rispetto a Paesi come la Norvegia al 71,4%  e la Svezia al 74,6%, o la Germania attestata al 71,0 %, su 35 Paesi europei (media 65,3%) siamo saldamente al quart’ultimo posto!

L’ISTAT certifica anche che nel 2016 circa 30.000 donne hanno dovuto lasciare il lavoro, di cui circa 24.500 per le necessità dell’accudire un bambino. Le cause dell’abbandono vanno ricercate nella flessibilità temporale e spaziale richiesta dagli odierni mercati del lavoro; nella nuova tipologia delle famiglie a seguito di separazioni, divorzi; nella reale disponibilità di soli 22 posti ogni 100 bambini in asili-nido pubblici, mentre elevato ne è il costo in strutture private. Si calcola che mantenere un figlio sino a 18 anni venga a costare l’equivalente di una Ferrari!

Il 1977, cui fa riferimento l’ISTAT, fu anche l’anno del femminismo. Sono trascorsi 40 anni da quel confronto e dagli artifizi lessicali che lo caratterizzavano (la cosiddetta “autodeterminazione” e “l’utero è mio e lo gestisco come voglio io”). La potenza di quegli slogan non fu percepita a sufficienza, e le italiane ancora attendono risposte alle domande di parità, specie nel lavoro. In 40 anni non sono state varate politiche di welfare tese ad abolire il dilemma  modernità / famiglia, vale a dire: tenersi il lavoro e rinunciare ai figli, o avere figli e rinunciare al lavoro? Le donne hanno così potuto contare solo sulla possibilità loro offerta di autogestire la propria fecondità, per una maternità cosiddetta “libera”: libertà, cioè, di abortire con una legge (la 194/78) tra le più permissive al mondo.

La depenalizzazione dell’aborto è stata l’antesignana di un materialismo laicista che subordina l‘attuale coesistenza civile: quando nell’affanno di risolvere (o eludere?) difficoltà tipiche della moderna società, il Parlamento promulgava leggi (quella elettorale sappiamo tutti servita solo a spartire le poltrone) di sovvertimento biologico, più che morale, quali: il congelamento di embrioni umani, uteri “in affitto”, i cosiddetti “matrimoni” tra omosessuali, l’abolizione del “genere”, droghe leggere, eutanasia. Leggi, tutte, non necessarie né urgenti, laddove premevano ben altri problemi: la penuria di lavoro (maschile e femminile), specie giovanile; la sicurezza del cittadino; la prevenzione del dissesto idro-geologico; un’incontrollata immigrazione che, di là dagli enormi problemi assistenziali, abitativi e di lavoro, genera clandestinità, bivacchi, degrado e delinquenza; la carenza di servizi essenziali (sanità, abitazioni, rifiuti e trasporti), per finire con il mancato sostegno a famiglie, maternità e natalità.

Famiglia e natalità che sono a fondamento di ogni nazione, ed alle quali lo Stato italiano destina solo l’1,5% del Pil che impallidisce al confronto con il 4,6% della Danimarca, il 3,2% della Finlandia, 2,5% della Francia e l’1,8% della Germania, collocandoci nel panorama europeo solo al 15° posto! La spesa invece per un’assurda immigrazione (meno del 5% sono veri rifugiati che fuggono da guerre e miseria, per gli altri si traduce in “residenza” anche in alberghi, a fronte di famiglie italiane che “dormono” tra cartoni sui marciapiedi o in macchina), è passata da 3,6 miliardi di Euro nel 2016 a 4,2 miliardi nel 2017 (fonte Ministero dell’Economia): il costo di una inesistente (perfino rifiutata) integrazione viene così ad equivalere a più del doppio della spesa per bonus-bebé.

Quanto al bilancio demografico (ISTAT), in Italia nel 1964 ci sono state 1.016.120 nascite, con un saldo positivo nati-deceduti di +526.016, ed un tasso di fecondità di 2,70 figli/per donna in età fertile (14-49 anni). Un anno prima dell’entrata in vigore della legalizzazione dell’aborto (1977), il numero delle nascite era ancora di 741.103, con un saldo positivo di +194.409 ed un tasso di fecondità sceso ad 1,98. Nel 2016, in Italia le nascite  sono crollate a 423.823 unità con un saldo negativo, questa volta, di -141.223 unità, ed un tasso di fecondità precipitato ad 1,34, tra i più bassi al mondo. Solo in 10 anni (2006-2016) 100mila bambini in meno, con un ulteriore calo di 12mila nascite nel 2017.

Il declino demografico comporta un fatale arretramento ed invecchiamento della popolazione. I giovani sono meno saggi degli anziani, ma più intelligenti. E le nazioni con maggior incremento demografico, USA, India, Indonesia e la stessa Cina (dove non c’è più il limite di un solo figlio per famiglia) sono i Paesi con il maggior sviluppo economico: popolazioni giovani con idee innovatrici e rapida crescita.

Qual è la situazione in Italia? Evidenziando che per ogni figlio che nasca da un’italiana, ce ne sono tre o più che nascono da extracomunitarie: ne conseguono culle vuote e fuga di cervelli all’estero!

Cosa si può ipotizzare per il futuro di famiglie ed imprese? Nessun futuro senza una moralizzazione della politica, ottenibile solo con l’abolizione del finanziamento pubblico (madre di tutti i privilegi e sprechi a danno di welfare e Previdenza): partendo dalla questione meridionale che va affrontata alla radice (un’utopia), passando per la tutela del risparmio che va incoraggiato, in quanto risorsa per le famiglie (e non pascolo per le banche), per giungere ad una tassazione più equa con l’introduzione del “quoziente familiare”, non più rinviabile.

Ciò che possa restituire ai cittadini la voglia d’intraprendere e rischiare, quel bene immateriale e psicologico di cui c’è assoluto bisogno: la fiducia!