Prof.ssa Giovanna De Paola

già Primario f.f. presso il reparto di Medicina Cesalpino, Az. Osp. San Camillo-Forlanini, Roma

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2016-2017

Vol. 61, n° 3, Luglio - Settembre 2017

Settimana per la Cultura

18 aprile 2017

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Tucidide e la peste di Atene

G. De Paola

Tucidide ateniese (circa 455-395 a.C) è grandissimo storico  e si può definire storico moderno. Cronologicamente vicino a Erodoto (circa 485-425 a.C.) ne differisce come stile e come forma mentis. Erodoto aveva narrato le guerre persiane ma anche i suoi viaggi nel vicino oriente con una impronta in parte favolistica,incline a riferimenti mitologici.

Tucidide narra la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) che contrappone Sparta ad Atene e termina con la fine del predominio politico, sociale ed economico di Atene sconfitta. Il racconto di Tucidide si attiene rigidamente alla verità storica; è stato scritto probabilmente dopo il 404 e inizia con questa dichiarazione: “… ho ricercato le fonti e le testimonianze degli avvenimenti con cura e imparzialità dando credito a quanto appariva rispondente alla realtà dei fatti.”

La trattazione è stata divisa in otto libri dai grammatici alessandrini e abbraccia il periodo dal 431 al 411, poi si interrompe. La guerra inizia nel 431: gli Spartani invadono l’Attica e la devastano; è allora che ad Atene scoppia la pestilenza durante la quale muore di peste Pericle.

Tucidide contrae la malattia ma ne guarisce e successivamente partecipa alla guerra come comandante della flotta ateniese impegnata nel 424 a proteggere le coste della Tracia. Non riesce a impedire l’occupazione spartana di Antipoli e, accusato di tradimento, sfugge la condanna a morte con l’esilio. Potrà tornare ad Atene solo nel 404 alla fine della guerra. Atene era occupata dallo spartano Lisandro che impone il governo dei trenta tiranni.

La pestilenza del 429 è descritta da Tucidide con una precisione si direbbe scientifica della sintomatologia, del decorso, dei caratteri epidemiologici che ci consente di emettere una ipotesi molto valida sulla natura della malattia stessa.  Dico sulla natura della malattia perché è certo che non era peste: la peste, cioè la malattia sostenuta dalla Yersinia pestis e responsabile di tante epidemie riferite nella storia e nella letteratura (vedi Boccaccio, Manzoni, ...) è malattia dell’Estremo Oriente e compare per la prima volta in Europa nel VI secolo d.C. a Costantinopoli durante il regno di Giustiniano.

Tucidide formula l’ipotesi che il morbo provenisse dall’Africa, avendo colpito l’Egitto e la Libia. La malattia piombò su Atene all’improvviso con una violenza e una diffusione eccezionali. I primi contagiati furono gli abitanti del Pireo a conferma che il contagio veniva dal mare, ma corse voce che gli Spartani avessero avvelenato le cisterne.

Rapidamente il morbo si diffuse e perdurò alcuni anni: (su circa 200.000 tra abitanti e immigrati dalla campagna ne morì circa un terzo). Colpiva senza differenza i forti e i deboli e i medici non ne capivano la causa, si ammalavano e morivano più degli altri perché per il loro lavoro avvicinavano di più i malati.

I primi sintomi erano forte calore alla testa, bruciore agli occhi e alla gola, arrossamento del volto, alito fetido. Poi il male scendeva nel petto con tosse e singhiozzo, poi allo stomaco e intestino con  vomito e diarrea. Sulla cute comparivano piccole pustole e ulcere. Queste diventavano confluenti e assumevano carattere emorragico. Il senso di calore era tale da rendere intollerabili gli abiti. La sete intensa induceva a bere continuamente, talvolta fino a gettarsi nei pozzi. Per i primi giorni di malattia i malati si mantenevano forti ma molti morivano dopo 7-9 giorni dall’esordio del male. Se superavano questa fase andavano incontro a debolezza, assumevano un colorito rossastro livido (cianosi?). Spesso morivano in questa fase, ma alcuni non morivano ancora; il male, iniziato dalla testa, si diffondeva agli arti inferiori con ulcere e gangrene. Poteva sopraggiungere uno stato demenziale per cui non riconoscevano più i familiari.

Le strade si riempivano di cadaveri e i cani randagi e gli uccelli che si cibavano dei cadaveri morivano anch’essi. Se qualcuno riusciva guarire non prendeva più la malattia.

Subentrano a questo punto nel racconto tucidideo alcune notazioni psicologiche e sociali: un aspetto terribile della malattia era lo scoraggiamento che induceva i malati ad abbandonarsi alla disperazione. I cittadini non ancora malati rivelavano la loro indole, alcuni industriandosi ad assistere i congiunti malati, altri invece fuggendoli senza più riconoscere alcun vincolo di affetto e di parentela.

I sani e i guariti spesso si davano a stravizi e orge trascurando ogni ritegno morale e il rispetto delle leggi. Venivano offerti sacrifici propiziatori e venivano rivolte suppliche agli dei, ma era evidente che non avevano alcuna efficacia.

Qui possiamo aggiungere che Tucidide riferisce queste notizie per fedeltà storica, ma, pur non facendo professione di ateismo, era evidentemente scettico riguardo a possibili interventi soprannaturali. Né l’autore esprime giudizi morali: da vero storico rileva i fatti con assoluta obiettività.

Sulla eziologia della pestilenza proprio dalla descrizione di Tucidide sono state formulate varie ipotesi che comprendono il morbillo, la febbre tifoide, l’influenza o anche una eventuale infezione oggi scomparsa, ma la più accreditata è che si sia trattato di tifo esantematico (tifo petecchiale) che conosciamo come dovuto alla Rickettsia Prowazeki.

La sintomatologia del tifo esantematico può ben corrispondere alle note sintomatologiche espresse da Tucidide. La Rickettsia Prowazeki è un agente infettivo obbligatoriamente intracellulare che si presenta visibile al microscopio come un coccobacillo. Ha un ciclo biologico che prevede un artropode vettore (per la R.P. il pediculus vestimenti) e un serbatoio che è stato identificato nello scoiattolo dei boschi, ma può essere anche il topo. Il passaggio all’uomo ai fini del ciclo della R.P. non è necessario ed è occasionale. La puntura del pidocchio non inietta la R.P. ma l’artropode deposita nella sede della puntura feci infette che, attraverso il trattamento, permettono l’ingresso del virus nel derma.

La sintomatologia generale della malattia è probabilmente dovuta a tossine, ma la lesione anatomica fondamentale è vascolare: si tratta di una microvasculite responsabile sia delle lesioni cutanee che di quelle degli organi interni.

La malattia ha una fase di incubazione di 7 giorni, poi esordisce acutamente con febbre, cefalea, brividi. Al quinto giorno compare un esantema cutaneo maculopapuloso, poi maculopetecchiale con macule emorragiche confluenti. Coinvolge nel quadro generale miocardite con ipotensione e cianosi, polmonite, lesioni epatiche e renali, lesioni neurologiche con agitazione, stato confusionale e coma. Se la morte non interviene prima compaiono anche gangrene periferiche dovute all’interessamento vasculitico.

Esula da questo contesto la diagnosi di laboratorio (reazione di Weil Felix, isolamento dell’agente eziologico). A noi interessa la somiglianza del quadro sintomatologico con la descrizione di Tucidide che rileva i caratteri del quadro settico, della polmonite, del collasso cardiaco con cianosi, delle manifestazioni cutanee, di quelle viscerali, di quelle neurologiche. Completa la verosimiglianza dell’ipotesi eziologia la descrizione tucididea di gangrene delle estremità che nel tifo esantematico sono dovute alla vasculite e che nelle altre ipotesi eziologiche sollevate mancano del tutto.

Non resta che ammirare la descrizione di Tucidide; lo storico si è comportato con la precisione di un medico tanto da consentirci oggi, dopo oltre 2400 anni una diagnosi più che attendibile.